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L'Irpinia ferita nel settembre '43

di Francesco Barra

Tra rappresaglie e devastazioni

   Pesantissimi furono i danni che le infrastrutture civili e l'apparato produttivo dell'Irpinia subirono in conseguenza degli avvenimenti militari del settembre ’43.    Dall'8 settembre ai primi di ottobre la provincia rimase infatti in completa balìa delle truppe naziste, che poterono quindi attuare con teutonica precisione un sistematico programma di distruzioni e devastazioni, che mirava a fare terra bruciata di fronte all'avanzata degli alleati. Ben 274 ponti vennero fatti saltare, ed 830 Km. di strade furono più o meno gravemente danneggiati.

   Le linee ferroviarie Avellino-Benevento, Avellino-Rocchetta S. Antonio e Baiano-Napoli vennero inoltre messe completamente fuori uso, con la distruzione dei viadotti, degli impianti fissi, delle motrici e dei vagoni.

Le centrali elettriche di S. Mango e Luogosano furono anch'esse fatte saltare con le mine, e danni gravissimi ai macchinari subirono pure le miniere di zolfo di Altavilla e di Tufo, insieme a distillerie, molini e pastifici. I depositi annonari vennero saccheggiati, ed anche parte del bestiame fu razziata od uccisa.

   Alle devastazioni effettuate dai tedeschi in ritirata vanno poi aggiunti gli ingentissimi danni arrecati dalle operazioni belliche propriamente dette, e soprattutto dai bombardamenti aerei americani. Avellino fu semidistrutta dal rovinosissimo bombardamento del 14 settembre, che provocò un numero imprecisato, ma certo altissimo, di vittime civili.

   Ma numerosi altri civili rimasero vittime delle rappresaglie tedesche. A Capriglia i tedeschi fucilarono il 30 settembre in località Masseria il falegname sessantaquattrenne Michele Magliacane. A Castelvetere il 18 settembre gli stessi uccisero presso la sua abitazione Sabato Matteis (n. 6.12.1875); il 28 sett. saltò su una mina tedesca Giuseppina Ferraro (n. 12.4.1915), mentre sulla provinciale per Montemarano andava incontro agli americani per avvertirli che i tedeschi avevano lasciato il paese. A S. Mango rimasero vittime dei tedeschi Sabato Coppola (n. 11.4.1874), ucciso il 22 settembre, e Carmine Di Nardo (n. 16.7.1926), ucciso il 28. Ad Ascoli Satriano Giovanni Sollazzo (n. 15.6.1926) di Bisaccia fu ucciso per rappresaglia il 26 settembre. A Montella furono trucidati il 18 settembre Ciro Pascale (n. 3.1.1915), teleferista, e il fratello Ernesto (1.1.1920), contadino; avevano infatti sorpreso dei tedeschi a rubare in un loro casolare dopo aver ucciso il cane; alle loro rimostranze l'impiccarono al balcone. A Monteforte si contarono ben 22 vittime civili, deportate dai tedeschi. A S. Martino Valle Caudina vennero uccisi per rappresaglia: Enrico Cardone di anni 15, ferito al torace il 21 settembre e deceduto 5 giorni dopo all'Ospedale di Maddaloni; Giuseppe Morcone, di anni 18, ferito gravemente al petto il 21 settembre; Annunziata De Fabrizio, di Ospedaletto, ma residente nel centro caudino, deceduta il 22 settembre per ferita all'occipite.

   Altre vittime civili, per bombardamenti o a causa di mine, si contarono a Monteforte (9); Summonte (5); Greci (4); S. Martino (3); Sorbo (3); Castelvetere (2); S. Mango (1); Sturno (1) e Capriglia (1).

   Dal campo d’internamento di Forino (aperto nel giugno 1940), i tedeschi prelevarono dopo l’8 settembre 8 persone, probabilmente israelite, per “ignota destinazione”.

   Altre vittime irpine, civili e militari, cadute durante la resistenza all’occupante tedesco (ma l’elenco non ha nessuna presunzione di completezza), furono: il colonnello Vincenzo Cione (n. 2.8.1878) di Bagnoli, trucidato dai tedeschi a Capannori (Lucca) il 10 settembre 1943. Il carabiniere Filippo Bonavitacola (n. 3.3.1914) di Montella, partigiano in Albania, fucilato dai tedeschi l’8 dicembre 1944.

Il sottotenente Antonio Sparavigna (n. 7.2.1920) di Atripalda, partigiano in Val d’Aosta, trucidato a Cervinia il 30 ottobre 1944. Il sottotenente Michele Bruno Balestrieri (n. 3.11.1921), di Lacedonia, catturato a Vinadio (Valle Stu-ra) il

9 dicembre ’44 e fucilato dalle SS il 13 dello stesso mese. Il sottotenente Giuseppe Pasciuti (n. 21.3.1920), anch’egli di Lacedonia, caduto a Dueville (Vicenza) il 27 aprile 1945. Gennaro Vivenzio di Quindici, deceduto a Regina Coeli. Giuseppe Pelosi (n. 25.3.1918) di Serino, partigiano garibaldino, caduto il 16 novembre 1944 a Pierlugo. Il militare Michele Pierni (n. 25.3.1923) di S. Mango, ucciso a Gropparello (Piacenza) il 25 gennaio 1945. Antonio Schiavone (n. 20.11. 1890), di Eboli ma residente a Senerchia, catturato a Milano e morto a Dachau il 26 marzo 1945.

   A questi vanno aggiunti la medaglia d’oro Luigi Perna, sottotenente della divisione Granatieri di Sardegna, caduto il 10 settembre alla difesa di Roma; Raffaele Aversa (1906-1944) originario di Atripalda, eroico capitano dei Carabinieri trucidato alle Fosse Ardeatine insieme a Maurizio Giglio, di famiglia avellinese, e Giovanni Palatucci (1909-1945) di Montella, eroico ultimo questore italiano di Fiume, morto nel febbraio ’45 a Dachau.

   Si comprende agevolmente, quindi, come il problema primario della popolazione fosse, dopo la liberazione, quello dell'alimentazione, seguito da quello della casa, del lavoro, dell' energia elettrica, dell'assistenza sanitaria, dei trasporti e delle comunicazioni. Problemi questi che l'amministrazione militare alleata d'occupazione (AMGOT), insediatasi ad Avellino il 1° ottobre, affrontò con notevole energia e relativa larghezza di mezzi, senza però riuscire del tutto a risolverli. Si iniziò dalla distruzione dei martoriati resti delle centinaia di vittime dei bombardamenti aerei che da settimane attendevano sepoltura, e che costituivano un pericolosissimo focolaio di epidemie; si proseguì riattando l'acquedotto e le fognature, effettuando le prime sommarie riparazioni agli edifici della prefettura, del carcere e degli uffici finanziari, sgomberando le macerie e demolendo gli edifici pericolanti.

   Nella città devastata cominciò a ristabilirsi un minimo di vita civile, e gli abitanti, quasi tutti fuggiti nelle campagne e nei centri viciniori, poterono far ritorno alle loro case, che, se sopravvissute ai bombardamenti, non erano però sfuggite ai vandalici saccheggi operati da ondate predatrici che si erano abbattute sulla città dopo il 14 settembre. I numerosissimi senzatetto trovarono un alloggio provvisorio nelle scuole e negli edifici pubblici o istituendo forme di coabitazione con altre famiglie. In seguito alla distruzione di ben 16.578 vani subìta dal patrimonio edilizio di Avellino,

l'indice di affollamento, già elevato nel periodo prebellico (1,9 abitante per vano), passò infatti a 3,4.

   Particolarmente grave era poi la situazione della viabilità, soprattutto a causa della sistematica distruzione dei ponti operata dai tedeschi. Un primo lotto di interventi riguardò 34 viadotti, per una spesa complessiva di 14.680.000 di lire, di cui il 92% a carico dell'AMGOT ed il rimanente del ministero dei Lavori pubblici. In un secondo tempo fu avviata la ricostruzione di altri 15 ponti, per una spesa di 21.431.000 lire, di cui il 78% a carico dell’AMGOT. Gli alleati provvidero inoltre direttamente all'installazione di un ponte nell'abitato di Atripalda e al lancio di ponti provvisori lungo l'Avellino-Foggia e la statale 90. Alquanto rapidamente venne riattata (anche se con una sola corsa giornaliera) la linea ferroviaria Avellino-Napoli via Mercato S. Severino, che rivestiva interesse strategico per gli alleati, mentre l'Avellino-Benevento e l'Avellino-Rocchetta, che non godevano dello stesso privilegio, dovettero attendere il dopoguerra per rientrare in funzione. Si riavviarono faticosamente anche i trasporti su gomma, ma tra enormi difficoltà e disagi per la scarsità di mezzi, il pessimo stato delle strade, l'usura delle gomme e la mancanza di pezzi di ricambio. Soltanto il 20 marzo 1944 fu inoltre ripristinato il servizio postale.

Assai pesante era pure la situazione dell'erogazione dell'energia elettrica. Sino all'8 settembre, la Società elettrica della Campania (SEC) disponeva della centrale di S. Mango, che produceva 3.000 kw., e di quella di Luogosano, con 200 kw., entrambe minate dai tedeschi.

   Dopo la liberazione, il comando militare alleato avocò a sé l'erogazione dell'energia, assegnando alla SEC, che riforniva Avellino, appena 600 kw. al giorno, quantitativo questo davvero minimo. Nel capoluogo furono così privati di energia elettrica industriale per cucina e riscaldamento 1.720 utenti, benché la città fosse sfornita di gas e scarseggiassero carbone e legna. La SEC versava inoltre in gravi difficoltà a causa dell'esaurimento dei materiali per la normale manutenzione (fili, lampade, stagno, ecc.).

   Per quanto riguarda l'apparato industriale, la situazione era davvero disastrosa, e per le distruzioni apportate dai tedeschi e per la mancanza di materie prime e per l'impossibilità di smerciare i prodotti. Una prima e sia pur ridotta ripresa della lavorazione non si ebbe in effetti che nei primi mesi del ’44. Lo stabili-mento per la produzione dell'acido tannico di Atripalda, uno dei maggiori del settore nel Mezzogiorno, venne requisito dagli alleati, ed in tale condizione rimase fino

all'aprile del 1945. Le industrie conciarie di Solofra furono in conseguenza costrette a riprendere l'attività a cicli saltuari per la scarsità di pelli e di materia conciante, assicurata in precedenza dallo stabilimento di Atripalda, anche se nella seconda metà del ’44 la loro ripresa produttiva, con l'allargamento del mercato, divenne più sostenuta. Le miniere di zolfo di Altavilla e Tufo, per i gravi danni subiti dai macchinari e per la deficienza di energia elettrica, furono costrette a contrarre fortemente l'attività, riducendo nel corso del ’44 la produzione dai 1.200 quintali giornalieri a 500 soltanto. L'attività del laterificio di Atripalda proseguì irregolarmente, a sbalzi, essendo legata alla disponibilità di carbone, mentre quella di Calitri, dove si era accumulata un'ingente quantità di materiale lavorato, trovava «enormi difficoltà» per il suo smercio, stante la perdurante interruzione dell'Avellino-Rocchetta. La cava di lignite di S. Mango, la cui produttività era sempre stata assai bassa, riprese l'attività estrattiva soltanto nell'autunno del ’44, mentre quella, assai più cospicua, di Andretta venne posta in liquidazione a causa della mancanza dei mezzi di trasporto. La carenza di carbone e di energia elettrica rilanciò invece l'industria del legno, già incrementatasi nel periodo precedente, anche se con gravi danni per il patrimonio boschivo dell'Irpinia, mentre segni evidenti di ripresa mostrò pure l'attività edilizia.

   Il più grave e sentito problema rimase, pur in una provincia essenzialmente agricola come l'Irpinia, quello alimentare, e ciò anche dopo l'arrivo degli alleati. Il 18 novembre 1943 i parroci di Avellino denunciarono al vescovo l’“urgenza preoccupante del problema alimentare”, essendo “da più di un mese la città ancora senza pane, senza sapone, senza grassi e senza altri generi di prima necessità, compreso il vestiario”, chiedendo perciò al presule di farsi interprete presso le autorità militari alleate del grave stato di disagio della popolazione. Anche con l'amministrazione militare alleata la razione giornaliera di pane rimase a 150 grammi, e fu l'unica ad essere regolarmente, o quasi, distribuita. A dicembre, ad esempio, vennero distribuiti 350 grammi d'olio e 700 grammi di pasta pro capite invece dei 7 chilogrammi che sarebbero toccati in base alla già insufficiente assegnazione prevista per il trimestre settembre-novembre. Soltanto col 1° marzo 1944 la razione individuale di pane fu aumentata a 200 grammi. Di fatto, nell'autunno ’43, i soli alimenti che comparvero quotidianamente sulle mense degli avellinesi furono patate, fagioli, peperoni, mele e kaki (detti popolarmente “lignisanti”), di modo che si cantava: “Se non fosse per mele e lignisanti / Staremmo tutti quanti al Camposanto!”.

   Ancora parecchi mesi dopo la liberazione non si aveva ancora modo di comperare pochi grammi di pasta, di formaggio, di zucchero, di grassi, e mancavano persino i fiammiferi. Rarissima e a prezzi proibitivi era poi la carne. Nel febbraio/marzo 1944 i macellai avellinesi attuarono anzi una forma di serrata per ottenere dalle autorità militari alleate un consistente aumento dei prezzi, riuscendo alla fine, il 1° aprile, ad essere autorizzati a smerciare la carne bovina al prezzo calmierato non più di 80 ma di 250 lire al chilo.

   In realtà, la presenza militare alleata, se tonificava grandemente l'economia della provincia, l'abbandonava altresì ad un processo inflattivo incontrollato ed incontrollabile, indotto dall'immissione massiccia della moneta dell'occupazione, le “amlire”, che venne assai efficacemente analizzata da Guido Dorso. Di fatto, in Irpinia in soli tre mesi (ottobre/dicembre ’43), i prezzi raddoppiarono, e, mentre il mercato nero raggiungeva il suo massimo grado di intensità, il costo della vita assunse costi vertiginosi..

 

 

 

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