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L’oltretomba nella tradizione popolare altavillese ovvero

in una cronaca del 1906

(di Giuseppe Sabatino e Raffaele Sarti)

*****

Su “Il Mattino” di Napoli del 29 aprile 1906, n. 118, nella pagina dedicata alla “vita meridionale”, Michele Severini, pubblica un articolo contenente alcune sue brevi considerazioni riguardo alle elezioni del 1906, svoltesi ad Altavilla per il rinnovo del Consiglio comunale. Nel breve articolo che segue, tra allusioni molto vaghe e sottili riferimenti a personaggi cittadini, l’autore invita tutti alla concordia e ad un rinnovato interesse verso il bene del paese.

 

IlMattino

giornale di Napoli del 28 e 29 Aprile I906, n° 118.

 

Vita meridionale

I1 nuovo SINDACO in Altavilla Irpina, 27 aprile:

“   Finalmente habemus pontificem!

Ieri, dopo oltre 2 mesi dalla perdita improvvisa a incommensurabile dell'Avvocato Cesare Caruso, rimasto incancellabile nel cuore e nella mente di tutta la cittadinanza, il Consiglio Comunale ha eletto Sindaco l'Egregio e stimato Cav. Beniamino Bruno (Il Cav. B. Bruno ha sposata la Signora Checchina Capone; zia di Italico e Lamberto Capone.)

   Sebbene l'ora presente non sia la più facile e gradevole per occupare la carica lasciata vuota dal cav. Caruso, pure noi fidiamo vivamente che il neo Sindaco, con la sua saggezza e la sua rettitudine, saprà mandare a termine le non poche benefiche opere amministrative cosi bene avviate dal suo chiaro predecessore.

   Questo, invero, è il programma che bisogna proseguire con lealtà e fermezza; e per compierlo felicemente occorre, al di sopra prima di tutto, mettere da banda una buona volta le grette quistioncelle personali, che formano il più gran malanno del nostro paese.

   Poichè, è bene dirlo francamente, qua non vi sono partiti, non essendovi diversità di programmi ricchi di contenuto serio, concreto, sostanziale. Qua vi sono soltanto misere bizze personali, che tengono diviso il paese per opera di alcuni malintenzionati, pochi però per nostra fortuna, i quali, per fini privati, vorrebbero spacciarle come questioni di partito e portarle nel governo della cosa pubblica per ritrarne sfoghi e vendetta con quanto danno del Comune è facile immaginare.

   Ora, noi lo gridiamo fortemente, è tempo di finirla! Via, via per sempre queste miserie, queste ambizioncelle mal fondate e mal nutrite, questi ardenti appetiti di rappresaglie individuali; via, via per sempre!

   Qui ci dev'essere un solo partito: quello del bene pubblico e della prosperità del Comune.

   Questa è la bandiera da spiegarsi, alta, sicura, vittoriosa, gloriosa; questo è il programma intorno al quale devono stringersi compatti quanti sono cittadini buoni, onesti, probi (1), quanti Altavillesi han la forza ed i1 coraggio di saper anteporre l’interesse generale a quello proprio, particolare.

   E speriamo che così vorrà agire l'Amministrazione (2) presieduta dal nuovo Sindaco. Non badi essa a persona, non si curi di ciò che potrà dirsi del suo operato in piazza o nei caffè dai soliti maligni mestatori, fanfarroni, arruffoni, predicatori di bassezze e di contumelie, i quali si atteggiano a strenui tribuni polari, a intrepidi paladini della virtù e dell'onestà, mentre invece non sono che i veri nemici del bene comune.

   Non se ne curi la nuova Amministrazione; miri più in alto; miri alle cose; miri all'interesse pubblico; faccia il bene per il bene, con coscienza, con fervore, con costanza, con sincerità; proceda in tale cammino, impavida, imperturbabile, diritta alla meta.

   E sia certa che non tarderà ad essere circondata e seguita ben presto dalla stima, dal favore, dall'ammirazione, dalla benedizione dell'intero paese o almeno alla sua parte migliore, sana e retta, che, senza dubbio, è anche la maggiore.

   Tanto sentivamo il dovere di dire, chiaro e forte, per la verità, ora che una nuova era amministrativa comincia per il Comune. E lo abbiamo detto apertamente, una volta per sempre."

                                                                                                              Sir Michael

                                                                                         (pseudonimo di Michele Severini)

                                                               ********

 

Pubblicato l’articolo, vecchi rancori insieme -verosimilmente- a conti in sospeso tra partiti, inducono Lamberto Capone, accompagnato dal fratello Italico e dall’amico Giovanni Salerno, ad aggredire, per strada, Luigi Severini padre dell’articolista al quale, i due fratelli, attribuiscono alcune frasi allusive contenute nel trafiletto. Luigi Severini, profondamente turbato dall’accaduto, in una memoria privata, scrive al riguardo :

 

RicordoUna seconda e non ultima villanata

Ricordo

   La sera del 28 aprile 1906 mentre scendevo pel corso Umberto ritirandomi dalla consueta passeggiata verso le 8 P.M. in sui pressi dell’ufficio postale incontrai D. Italico e D. Lamberto Capone con Giovanni Salerno. Fui il primo a salutare e dar loro la buona sera, risposero gentilmente e passarono oltre mentre io continuavo la mia via. Fatti 6 o 7 passi m’intesi chiamare da D. Italico Capone al quale premuroso mi avvicinai per sapere in che poteva servirlo. Costui allora comincia col dirmi che avrei dovuto richiamare mio figlio Michele che aveva scritto una corrispondenza sul Mattino che egli trova allusiva ed offensiva senza specificare per chi. Io protestai che non avevo letto tale corrispondenza e, come era vero, ignoravo ogni cosa, nè potevo mai credere che mio figlio scrivendo avesse sconfinato dalle regole   che  deve  avere  un  corrispondente mantenendosi    impersonale e obiettivo.

   Avvicinatosi così anche il Lamberto ed il Salerno, soggiunse alzando sempre più la voce, che se mio figlio non smetteva l’avrebbe preso a schiaffi in pubblica via, al che il Sig. Lamberto aggiunse ed il resto ce lo darò io in calci. Io protestai che alla fine questo mio figlio non sarebbe stato solo, e comechè a coro ripetevano tali contumelie alzando sempre più la voce per fare popolo, sapendoli irruenti, prepotenti e maniaci, li lascia e continuai la mia strada e loro tre insieme la loro.

   Più su del corso rimpetto la casa di mio cognato incontrarono mio figlio ed anche a lui che pacificamente passeggiava con Feluccio Bruno fecero irruenza dandogli dell’imbecille e che il resto lo avevano detto a me.

   Mio figlio che ha forza e core per reagire e senno per evitare un guaio, corse da me tutto convulso per sapere cosa mi era successo.

   Io feci quanto potei per calmarlo e vi riuscii.

   Galantuomini?! Signori?

   Siamo in Altavilla o in Abissinia? Altro che Sila !

                               

                                                                            ******

L’antefatto appena descritto rientra in quel contesto di vita cittadina caratterizzata in linea di massima da una sana competizione politica, non molto diversa da quella dei giorni nostri sebbene in passato la rivalità, ma ancora di più il rancore generato all’interno delle fazioni politiche cittadine, abbiano in rari casi addirittura raggiunto la sfida personale e la minaccia del duello.

In generale traspare tuttavia, come nel testo che segue, una vita di relazione basata sulle buone maniere e soprattutto su codici di comportamento che tengono in gran conto il rispetto dovuto ai personaggi di rango, Nello specifico la persona di rango alla quale il Severini si rivolge per ottenere aiuto e chiarire il malinteso è uno dei signori più influenti della comunità altavillese, il defunto Senatore Giuseppe Capone, zio dei fratelli Lamberto e Italico, personaggio politico di riferimento sia per la comunità altavillese che di quella della vicina Arpaise.

Al Senatore Giuseppe Capone il Severini fa quindi ricorso ( ! ) affinché si degni andare in sogno e spiegare ai nipoti Lamberto e Italico le buone intenzioni del figlio Michele, autore dell’articolo, e ottenere così il ristabilirsi dei vecchi rapporti di stima e di rispetto reciproco, consapevole che il pericolo è la barbarie delle relazioni, la violenza dei rapporti, l’immiserimento e la scomparsa del senso ultimo dell’essere stati buoni amici.

Aldilà di tutte le possibili considerazioni, lo scritto che segue ci rende testimonianza di un fenomeno intorno al quale desideriamo richiamare l’attenzione del nostro lettore e cioè il perdurare di quell’antico sentimento che, soprattutto nelle piccole realtà del meridione, lega i vivi con i defunti, un sentimento a tal punto radicato da essere capace di condizionare, intervenire e interagire nella vita materiale degli individui o addirittura trovare giustificazione nelle aule dei tribunali così come avvenne ad Altavilla nel 1905 quando alcuni inquilini, chiamati in giudizio per mancato pagamento del canone, giustificarono l’accaduto per la presenza degli spiriti che infestavano la loro abitazione.

Nel nostro caso, il Severini arriva addirittura al paradosso di chiedere al defunto Senatore di tenerlo informato - sempre in sogno - circa l’esito dell’incontro che egli avrà con i nipoti offesi.

Divertente e simpatico è il testo che riportiamo ma, soprattutto, è la testimonianza di una mentalità e di certe credenze ancora vive soltanto un secolo fa !

RICORSO

“   Al già Senatore del Regno d'Italia CAPONE Avv. Giuseppe per la brutale aggressione del nipote Lamberto ".

   Non sempre è paura, non sempre è viltà se non si reagisce con la violenza alla violenza, se si comprime il proprio dolore e con animo turbato, ma tranquillo e sereno, si soffre una immeritata mortificazione, una ingiuria pubblica, fatta a me ed a mio figlio, da un discendente di Giuseppe Capone, già Senatore del Regno d’Italia fin dal 1861.

   Odiare dal profondo dell'animo, divenire nemico per tale gratuita offesa, dopo quarant'anni di amichevoli rapporti, di deferente devozione, di costante ossequio, avuto con una famiglia, a me pare più indegno di un generoso perdono e preferisco difendermi dalla incivile aggressione patita, come si addice ad uomini viventi in civile consorzio, servendomi non della violenza, arma dei bruti, ma del lume di Dio, per denudare con stretto raziocinio tutta le bassezza dell'offesa cagionatami, senza mente, senza cuore e senz'alcun motivo.

   Pressoché sessantenne, incallito nelle lotte della vita, l'animo mio non sa più covare odio, nè vendetta contro una bravata di gioventù bollente ed impulsiva, quanto irriflessiva.

   Respingere la violenza con la violenza non è più della mia età, mi si darebbe del pazzo o dell'allucinato e, solo per l'offeso decoro, mi servo della penna per deplorare e respingere con tutte le forze dell'animo mio l'inqualificabile aggressione e dimostrare quanto sia stata civile e gloriosa per chi la commise contro di me e di mio figlio.

   Si può nascere un genio, si può nascere ricchi ed anche pazzi, ma non sempre si nasce galantuomini nel vero ed ampio senso della parola, anzi quanto tale virtù non è innata, non è sorretta da anima gentile e colta, ma riflessa, spesso diviene usurpazione di virtù altrui.

   E’ per tanto necessario premettere che nella mia giovanile età di 20 a 21 anni fui fortunato di affezionarmi alla famiglia di D. Giuseppe CAPONE, attiratovi forse anche da un lontanissimo filo di parentela, avendo Egli avuto per madre, nel 1790, D. Anna Maria Severini del fu Dottor fisico D. Vinceslao.

   D. Giuseppe Capone, allora già ottantenne, mi carezzava e parlava come ai propri figli, i quai tutti ebbero per me una affettuosa simpatia.

   Egli D. Giuseppe Capone, che pel suo censo, pel suo talento e per le sue benemerenze aveva raggiunta la massima dignità cui può aspirare un cittadino in regno di libertà, quello di Senatore del Regno d'Italia, non spregiava trattenersi a conversare piacevolmente con un imberbe giovanetto quale io mi era nel 1869.

   D. Giuseppe Capone le cui qualità di mente possono desumersi dagli atti del Senato, era di una bontà e mitezza d'animo impareggiabile, tanto che non sdegnava, quando si trovava in Arpaise, di guidare il somarello che trasportava le patate o altri ricolti del fondo Patierno di sua proprietà al vetusto suo palazzo.

   In quei tempi, ripeto, io contavo appena venti anni, venivo dall'Istituto di belle arti di Napoli, e per volontà del di lui dotto figlio Paolo Emilio e del nipote Domenico, mi trovavo Segretario di quel Comune (I869 I870). Perciò quasi tutti i giorni gli stavo a fianco nelle ore libere del mio ufficio, accompagnandolo pel viottolo che al ridosso del suo palazzo conduceva diritto alla masseria Patierno. L'asinello, montato, o dal sacco o dalla stola, o da copelle, ci precedeva. Strada facendo si discorreva or di questo or di quello. D. Ciuseppe Capone con una bontà e bonomia insuperabile, di tanto in tanto tirava fuori la sua tabacchiera istoriata, di osso lucido, annusava un pizzico di rapè (tabacco pregiato) e dopo l’immancabile starnuto estraeva dalla saccoccia della giacca di felpa il fazzoletto, detto allora, non so perchè, di scorza d’albero, a quadretti colorati in blù scuro e spesso si puliva il naso, poi, dando con un virgulto, una frustatina ed una voce di "arri arri" al somarello, si faceva e rifaceva più volte la via, asciugandosi il sudore che venivagli giù dalla fronte, di sotto al berretto di panno, dalla visiera della stessa stoffa. Altro che i democratici di oggi!

   Quella semplicità di maniere, di agire, in un tant'uomo, di tanta alta dignità, mi facevano restare a bocca aperta, n'ero meravigliato ed ammirato al non plus ultra, non sapendo io, allora, conciliare con l'alta carica tanta bontà e semplicità di costumi.

   Stimolato dalla smania di apprendere ne ascoltavo religiosamente le parole ed i precetti del ben vivere in società.

   Che grande probità, che patriarcalità, che santità di uomo! Altro che Cincinnato dell'epoca romana!

   I suoi discorsetti, le sue parole, i fatterelli che mi raccontava della storia del regno e della vicende politiche del nuovo Regno d'Italia, destavano in me un’ammirazione senza confine.

   Tutti i figli di questo prototipo di galantuomo, i fratelli e figli dei suoi fratelli, allora viventi, galantuomini anch'essi in tutta l'estensione della parola, mi onoravano della loro benevolenza, mi colmavano di benefiche cortesie e solo la mia ritrosia a non trar profitto della bontà e munificenza loro, e forse, la mia ristretta educazione mi ritenevano di abusarne, mi facevano disertare dalla loro stessa mensa e dalla benevola ospitalità di cui spesso mi si faceva fruire, più come parente che come familiare di casa loro.

   Ed a proposito: ricordomi sempre con animo gratissimo di D. Ferdinando Capone, che giovanissimo, a 16 o 17 anni, mi volle Segretario dell'Aiutante Maggiore del Battaglione della Guardia Nazionale del Mandamento di Altavilla che egli allora (I865) comandava come Maggiore, ed era tanta la fiducia che io gli avevo ispirata che mi firmava dei fogli in bianco, senza qualità (ne conservo ancora qualcuno per ricordo); affidava a me giovanetto, ripeto, il santo o motto d'ordine della giornata, per comunicarlo con tutta riserva ai Comandanti di guardia, cosa gelosissima e di grande responsabilità, in quei tempi infestati ancora da briganti e rapinanti diurni e notturni, per le campagne e montagne circostanti il territorio del nostro paese. Ciò non pertanto la gioventù non mi tradì, ed il lume di Dio non mi fece cadere in alcuna leggerezza, e risposi bene con onore e decoro alla fiducia di cui mi si era, per bontà sua, affidata e che io gli avevo ispirata.

   Mi ricordo con animo gratissimo del suo degno figlio, D. Federico, che mi onora della sua benevolenza colmandomi con squisita cortesia e di munificenti gentilezze.

   Mi ricordo di D. Teresina Capone, donna veneranda, che per anni mi ebbe in casa sua, come figlio, in Napoli a Via Pontenuovo, palazzo Turchiaruolo, e ricordo i suoi inforcati occhiali e le dieci smorfie con le quali, ogni venerdì, c'indugiavamo insieme a sfogliare sino alla mezza notte, cavandone regole e numeri pel lotto di cui essa era molto appassionata. Chi può dire le cadenze, le figure, le piramidi ed i quadrati che mi faceva fare per cavarne il ristretto od il simpatico? Oh! se avessi tanti soldi di rendita al giorno sarei abbastanza ricco ed agiato anche io!

   E che dire del Cavaliere di gran croce D. Crescenzo Capone, della sua buona Signora D. Cecilia, delle sue sorelle tutte e cognati, D. Angiolina e marito D. Eugenio Nicastro, cha abitavano a San Bartolomeo a porto: D. Giocondina e D. Domenico Cimmino che stavano a Secondigliano: di D. Tommasina e marito D. Achille Bruno che abitavano a Via Tribunali; di D. Domenico Capone e della sua buona e laboriosa Signora D. Peppina, donna di virtù e pazienza esemplare; del vecchio ed alto D. Carlo Capone e figli, nonchè di D. Emilio Capone che mi dava lezioni di leggi amministrative, uomo dotto, tranquillo e probo quanto il genitore, io lo chiamavo l'organo della casa; sempre sprofondato in istudi ed opere di carità, nel suo esercizio professionale di medico e delle altre sue benemerenze già scolpite nel marmo in Arpaise: dello sventurato e sempre gentile e simpatico Pasquale Capone e del Comm. Michele Capone, miei coetanei che mi han sempre conservata inalterata la, benevolenza e l'amicizia loro, della quale mai abusai, e della sorella D. Luisa che, a dispetto del cuoco Pasquale, mi conservava sempre i migliori bocconi della cucina?

   Ricordo ancora, con affetto ed ammirazione, D. Vincenzo Capone, che nel 3 settembre 1860 si pose arditamente a capo di una Colonna insurrezionale per correre in aiuto del Comitato provvisorio di Ariano di Puglia.

   Ricordo l'ospitalità che D. Peppino Capone fece qui, a1 Generale Avezzana Giuseppe, in questo obliato suo palazzo, allora di fresco ornato, per la circostanza, dello stemma italiano, palazzo in origine della genitrice D. Anna Maria Severini fu Dottor Vinceslao.

   E ricordo che D. Giuseppe Capone essendo stato incaricato, nel 1860, dal Governo Italiano, di costituire la Guardia Nazionale, dovendo partire per Torino onde far parte delle sedute del Senato del nuovo Regno d'Italia, con sua lettera autografa, che religiosamente conservo tuttora, affidò al mio sempre venerato padre Michele Severini la sua delicata missione.

   Dopo tante rimembranze chi mai avrebbe potuto pensare che oggi, in cui la mia stagione già declina, un suo discendente figlio del tanto compianto e sventurato D. Vincenzo Capone, vittima del tremuoto di Casamicciola del I883, senz'alcun motivo, ne diretto ne indiretto, per un pretesto studiatamente ricercato, nella generica prosa di un moscone, articoletto di giornale, da mio figlio Michele scritto pel "MATTINO” di Napoli (n. 118) fugacemente, come fugacemente dovè esser letto e mal compreso, avrebbe compiuto la non nobile, ne gentile bravata d'aggredire, armato di rivoltella, in pubblica via, me che avrei dovuto essere riguardato almeno per ragion di età, come io venerai i suoi antenati, e mio figlio Michele entrambi inermi e sorpresi, figlio da me educato al culto a rispetto della famiglia Capone, ed al quale non era passata neppure per la mente i1 pensiero di offenderne la stima?

   La generica prosa dell'articoletto, niente affatto offensiva ed eminentemente impersonale n'è prova evidentissima per chiunque sappia leggere.

   Quale ragione e per quale antecedente, mio figlio, che poi non è nè un pazzo nè un esaltato, avrebbe dovuto alludere alle persone loro, se sino al giorno innanzi si stringevano cordialmente la mano?

   E' mai possibile che anche il criterio ed il raziocinio, sia pure il più elementare, sia scomparso da questo basso mondo?

   Ora a chi ricorrere per veder frenata tanta audacia a temerarietà se non a te Giuseppe CAPONE ( defunto ! ); se non invocando i1 tuo santo nome, per scuoterti dall'avello (oltretomba), in cui da tanti anni riposi, per destarti a pregarti calorosamente di venire, almeno in sogno, ai tuoi discendenti nipoti e dir loro che t'indichino le pretesi frasi offensive, che senz'alcuna ragione e senz'alcun motivo si sarebbero scritte a scapito loro.

   Vieni, e tu per essi, con quella pausa e calma che ti era abituale, leggi quella modesta e generica prosa, incitante all'unione di tutti i buoni, gli onesti e probi, nell'interesse della pace e bene pubblico di tutto il paese che li vide nascere.

   Fa loro comprendere che le pretese frasi da loro ritenute erroneamente per offensive, pel fine alto e nobile premesso sarebbero state un assurdo, un comune controsenso.

   Difendi tu dall’ingiusto ed irriflessivo addebito il figlio mio, proteggilo con la tua sempre venerata memoria presso questi tuoi nipoti ancora bollenti di giovinezza e di audacia, godenti del ricco censo e delle alte influenze che tu loro lasciasti.

   Fa loro comprendere che non approvi siano rotti quarant'anni di cordiali rapporti, di costante devozione, di affettuosa amicizia, per un mal'inteso, per una erronea interpretazione di poche parole di giornale e, dopo letto, sentenzia che ciò sarebbe cosa da pazzi o d'allucinati.

   Ricorri per me , che sempre venerai e venero la tua santa memoria, alla loro madre, D. Anna Valentini, donna esemplare per laboriosità, per saggezza e civica energia e fa che essa richiegga dai suoi cari figli e tuoi nipoti d'essere meno impulsivi e più riflessivi, che li moderi per carità e per amore.

   Dille che non è colpa mia e di mio figlio se, contro la nostra. volontà, non avemmo pur noi antenati che ci lasciassero ricchezze, relazioni alte e nome avito.

   Falle presento che il figlio aggressore è recidivo, ed occorse l'opera dello zio Michele a salvarlo dalla giustizia penale, per il colpo di fucile sparato in Terranuova, nell'occasione della festa dei Santi Cosimo e Damiano. Alla terza potrebbe cantare il gallo e guai a Dio!

   Oh sapienza divina! chi ha mai loro invidiati tanti tesori ereditati da essi? Noi, io, mio figlio e famiglia ci contentiamo e ci basta di sentirci gente onesta e di buon cuore, e modestia a parte, anche galantuomini senza laure speciali per tanto.

   Perciò dì loro fortemente che, nè io nè mio figlio possiamo essere ritenuti nemici della loro casa. Non lo vogliamo assoluta mente.

   Io sento tuttora un culto, un ammirazione, per la nobile e mite anima tua, che per tutta la vita fu costantemente piena di bontà, di munificenza e di galantomismo.

   Che altro posso fare, per respingere la non civile bravata oltre quello di denunziarla alla santa tua memoria più che alla giustizia costituita, e di portarla a conoscenza dei parenti tutti, onde essi presa cognizione dei precedenti e dei fatti, cor serena ed onesta coscienza, con quella probità e galantomismo di cui tu fosti il prototipo, diano all'autore quel plauso che si merita e che secondo i tuoi santi insegnamenti non potrebbe né dovrebbe sempre condurre a buona fine?

   Io e mio figlio benché offesi, in omaggio alla tua memoria e per la pace pubblica, comprimiamo l'acerbo dolore arrecatoci da un malinteso o da suggestione altrui, soffriamo con animo sereno e tranquillo l'immeritata mortificazione inflittaci dal l'umana malvagità, e perdoniamo di gran cuore, con tutta l'anima, senza paura, senza viltà, senza rancore, senza secondo fine e senza interesse.

   Se tu nobile avo, domandassi ai tuoi nipoti perchè si dovrebbe essere nemici di noi, che ti risponderanno? Faccelo sapere, magari in sogno, così, noi potremo fare ampia ammenda dei nostri torti.

   I tuoi nipoti, tu lo sai, battono la via del fasto,della potenza, dell'agiatezza, io e mio figlio quella modesta del lavoro quotidiano con vita morigerata e misurata, che, grazie a Dio, nulla ci fa mancare dell'indispensabile all'esistenza nostra e di quella di casa.

   Quale incompatibilità, può mai sorgere se si battono due vie diametralmente opposte?

   Che ciascuno, per ciò, vada per 1a sua via, sempre rispettando e rispettato, tanto basta per vivere tutti in santa pace. E cosi sia!

Altavilla Irpina, Maggio 1906 “

Luigi Severini fu Michele

In una nota, il Severini scrive :

Per ricordo

Da una postuma confidenza, fattami dallo stesso Sig. Avv. Lamberto Capone, all'Hotel Centrale di Avellino, ove mi diè un pranzo, per essermi recato con lui dall'Intendenza di Finanza, a conferire col Segretario Sig. Ficca, circa la pretesa di voler versare alto Stato la sovraimposta fondiaria dei ruoli suppletivi, già versati al Comune, appresi che gl'incitatori contro mio figlio furono: D. Pasquale Severini, i1 Dottore Luigi Tomasone e Tommaso Bartolino. Il figlio del Dottore,Ugo, allora giovanetto, dopo l'avvenimento della bravata andava per le vie canterellando per ironia: abemus pontificem! abemus pontificem!

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