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Memoria autografa di BRUNO Aniello fu Raffaele ex militare borbonico (1862/’63 ?) (1)

 

   1862 Borbonico BrunoAo memoria p1L'anno 1859 il di 22 Novembre in Napoli, mi arruolai soldato volontario, ma senza ingaggio, nel Reggimento Fanteria marina 2° Battaglione, 1^ Compagnia sotto il numero di matricola 10949 ad unico scopo di fare la carriera militare.(a ) (vedi nota in ultima pagina)

   Nel 1860, 19 maggio in Portici, fui promosso caporale onorario, o sottocaporale, e passai al 1° Battaglione, 4^ Compagnia.

   Il dì 6 settembre 1860 il Re Francesco 2° nelle ore pomeridiane partì da Napoli e rimase ordine che il Reggimento Marina e Granatieri lì avessero seguito, e che poi non fu adempito.

   Nel dì 7 settembre suddetto anno, nelle ore pomeridiane venne Garibaldi nel quartiere Darsena accompagnato da circa mille persone, di cui la maggior parte erano preti, e monaci con insigne di fascia tricolore a tracollo.

   Garibaldi dopo di avere parlato circa mezzora, conchiuse che i soldati rimanevano liberi di andarsene, o continuare il loro servizio, e se ne andò via.

   Dopo che Garibaldi si congedò da noi soldati, tutti si sbandarono ed alcuni buttarono a mare armi e bagaglio. La sera del 7 detto mese mi trovai distaccato al quartiere di S. Maria degl' Angioli anche in Napoli in compagnia di 4 miei compagni, dove venne un drappello di guardia nazionale cui facemmo la consegna del quartiere, ed io con i 4 miei compagni rimanemmo fermi nello stesso quartiere dove il detto drappello ci colmò di cortesie somministrandoci vitto più del necessario, e di lusso, inculcandoci sempre da quei capi di continuare il servizio che ci trovavamo meglio nella carriera. In quel momento ignorando lo scopo della rivoluzione, e tenuto presente la legge e regolamento militare vigente che diceva il soldato che si disertava in tempo di guerra, era punito colla morte, ma qualora poi gli veniva a mancare pane e prestazioni per 3 giorni consecutivi, disertandosi veniva assoluto. In adempimento a tale Legge rimasi fermo al mio posto.

   Il ritardo del mio rimpatrio mise in costernazione la mia famiglia che faceva premura di ritirarmi, ciò che feci dopo tre giorni per essere rimasto senza comando, privo di vitto e prestazioni in qualità di soldato.

   Testimoni di quanto ho detto di sopra sono, Giovanni Imbriani di Rocca, Nicola Bonisi ambi sotto caporali, Generoso Martino ed Arcangelo Di Giovanni ambi soldati del detto Reggimento, e due della mia Compagnia.

   Il giorno 11 settembre mi rimpatriai. Per diversi giorni fui salutato da pochi amici e compagni e segnatamente dal mio maestro Sig. Raffaele, Canonico Crescitelli, il quale m'incoraggiava d’arrolarmi nei Garibaldini che mi sarei trovato meglio nella carriera di cui io aspirava. Alla sua volta domandai al detto mio maestro: “ma questi Garibaldini che cosa rappresentano?” Mi rispose: “Vanno a combattere contro i Regii per cacciare fuori Francesco Secondo dal nostro Regno”. Allora soggiunsi: “mio caro Sig. Maestro, a me non conviene di prendere le armi contro del mio Re e Compagni, obbligati a servire per ben circa due terzi a malincuore, sia per la disciplina che degli 8 anni che dovevano servire”.

   Altre insistenze mi furono fatte per farmi arrolare Garibaldino, ma io sempre fui negativo.

   Fra poco tempo, furono chiamati sotto l'armi 4 classi cioè 37, 38, 39, 40, le quali furono ritrose a partire tanto da ricorrere ai mezzi di rigore. Anche io non volli partire, sostenendo di essere volontario come innanzi, e non facevo parte delle 4 classi chiamate. Per tali menzione ebbi a soffrire non poche persecuzioni, sempre per alcuni pravi del paese.

   In gennaio 1861 venne qui il Giudice Istruttore Sig. Pescatore e prese alloggio nella casa di Pasquale Bruno (Masaniello), dove alcuni pravi del paese, che non fò nomi, abbenchè tutti morti, consumarono la gradinata per salire e scendere allo scopo di far male a diverse famiglie del paese e segnatamente alla mia, senza alcuna ragione. Verso le 4 pomeridiane, che non ricordo il giorno, venne alla mia casa un drappello di guardia nazionale, imponendo a tutti di famiglia di riunirsi in una sola stanza senza permettere che nessuno si fosse mosso da quel posto. Dopo poco tempo venne l’Istruttore, Signor Pescatore, e dimandò a mio padre "quale è la vostra scrivania"; rispose "è quella' ; "ebbene datemi la chiave"; che subito consegnò. Il Giudice aprì un tiratoio e cacciò fuori tutte le carte ivi esistenti e chiese un lume e cominciò a leggere carte che riguardavano affari di famiglia. Poi passò ad altre (tiratoie ?), e fece lo stesso con trovare in uno di essi 4 once di polvere. In continuazione che il Giudice leggeva altre crte, Papà allora gli domandò "Sig. Giudice è permesso di sapere lo scopo della lettura di tale carte?". Rispose: “Don Raffaeele,voi e vostro figlio Aniello, siete stati imputati che fate una sottoscrizione di persone, a carlini 6 al giorno, allo scopo di fare cambiare la forma dell'attuale Governo, e di saccheggiare una classe di persone”.

    Papà a tale risposta si fece una risata e soggiunse: "Sig. Giudice del fatto di cui mi accennate, io nulla conosco, e vi autorizzo a fare tutto ciò che volete sul riguardo". II Giudice dopo 5 minuti lasciò le carte come stavano, raccomandando al Papà di metterle al loro posto. Sugellò le 4 once di polvere e si congedò insieme ai militi della Guardia nazionale. Il Giudice all’uscire dalla porta disse a Papà “Don Raffaele mi dovete dire qualche cosa?”, Papà rispose: Sig. Giudice Voi vi portate quel poco di polvere mentre io e mio figlio Peppino facciamo parte della Guardia Nazionale, e come si fa in caso di qualche aggressione?”

   Il giorno appresso Papà fu avvertito di allontanarsi unitamente a me, perché era uscito il mandato di arresto.

   Papà ed io fummo compresi nel processo n. 18 per i misfatti del 1861.

   Dopo che ci allontanammo, mammà si reco dal Giudice Istruttore e gli domandò “per quale causa mio figlio e il marito debbono andare carcerati?". Il Giudice rispose: “Signora, avete ragione ma non sono io, ma i vostri paesani che vogliono vedere distrutta la vostra famiglia”

   Il processo andò in Avellino, e dallo stesso nessun reato risultava, eccetto dei sospetti e dicerie a nostro carico come imputati di cospirazione secondo la importante ed unica dichiarazione fatta da Maddalenella, finché la camera di Consiglio decise che non vi è luogo a deliberare e si conservano gli atti in archivio.

   Ritirati in famiglia andai dalla detta Maddalenella e le domandai che cosa sapeva di me e di Papà, rispose "non so nulla, e vi conosco per i primi galantuomini del paese; solo sò che una mattina entrata nel caffé di Don Francesco Raffaele, trovai Don Raffaele Crescitelli, Don Luigi Cirelli, Don Ciccio Giordano ed altri, e parlavano di voi “…può essere, non può essere che Don Raffaele faceva questo, piuttosto Don Aniello…”; e questo lo  dichiarai anche al Giudice”.

   Delle dette 4 once di polvere, nel mentre aspettavamo la restituzione, fu fatto verbale di contravvenzione, ed in linea transattiva pagammo £ire 120, per sole once due ritenute non regie (?).

   Anche nel 1861 nel di 13 agosto si vociferò nel paese che dovevano venire dei briganti capitanati dal Sig. Don Donatino Bruno, e si disse pure che anche io ne facevo parte mentre in quel giorno mi trovai a letto ammalato con una coscia. In difesa del paese, arrivarono qui altre compagnie di militi dei vicini paesi, i quali invece di aiuto, vennero col fermo proposito di saccheggiare perché seguiti da molte donne fornite di sporte e sacchi.

   A smentir tale diceria, per mia pace, a gran stento uscii di casa, e potei arrivare fino alla fontana, ed al ritorno vidi 6 militi forestieri, di visi non poco orridi, che ripetute volte bussarono il portone della casa paterna di Don Pasquale Severino fu Raffaele. Presente alla bussata stava Don Ciccio Cirrelli 1° tenente della guardia nazionale con divisa del solo chepì, e guardava timido però, indifferente abbenchè anche zio dei figli del suddetto Don Raffaele Severino.

   Alle ripetute bussate con risentimento dei farisei militi, si affacciò alla finestra una delle sorelle di detto Don Pasquale, tutta spaventata e piangeva ritrovandosi allo istante.

   Arrivato io sul posto, che a stento mi reggeva all’impiedi, appoggiato ad un bastone, mi feci di coraggio, e dimandai a quei militi, presente sempre Don Ciccio Cirelli, "Voi a chi volete?" Risposero: "tozzolamo qua perché qui sono tutte le porte chiuse, e dobbiamo provvedere per la mensa dei sottoufficiali”. A tale loro risposta aspramente li richiamai circa la loro pretesa con imporgli di andare subito via e dirigersi alla locale autorità. In effetti senza ripetere parola si allontanarono.

   Nel 1861, e per 4 mesi del 1860, quasi tutte le sere, una massa di vagabondi e malviventi del paese, guidati da persona civile se volete, ma del tutto materiale, si gridava viva questo e viva quello con fermarsi vicino alcune case di onesti cittadini, fore Francesco 2°, morte ai borbonici, scagliando, una sera, delle pietre vicino alla mia casa rompendo alcune lastre.

   Per mia quiete e della mia famiglia ed a far togliere ogni sospetto di essere contrario all’attuale Regime, come definito dai Birboni; nel 4 settembre 1861 mi unii alla Compagnia di Guardia Mobile stazionata a Pietrastornina, in qualità di Sergente istruttore , per circa 6 mesi la detta Compagnia fu capitanata da 3 (Massimino Severino, Alessandro e Sigismondo Soldi).

   A dire il vero tanto questa Compagnia, come pure molte altre da me conosciute, erano ben inutili perché si componevano di circa 2/3 di persone inabili e non resistenti.

Nel 1862 fui sorteggiato nella leva e mi toccò il n. 110, rimanendo di 2^ categoria, che poi anche questa fu chiamata sotto le armi, e fui surrogato nel 16 luglio non avendo potuto andare di persona a causa che mio padre per l’età e salute non potè continuare gli affari della sua numerosa famiglia, la quale fu da me diretta come è noto a tutti del paese

 

   ( a ) Nota  

   Dopo circa due mesi, venne nel mio Reggimento come contingente di leva, ed aggregato alla mia Compagnia, il Sig. Di Giovanni Arcangelo di Pellegrino. Credo inutile in che modo lo accolsi. Piangeva sempre e si lamentava per ingiustizie ricevute dalla famiglia. Mi fece calde premure onde influire per rimanere nella mia Compagnia.

   Ne chiesi il permesso al mio Capitano per andare a pregarne il Sig. Colonnello, il quale accolse la mia istanza. Il Di Giovanni mi ringraziò, ed il suo male umore si cambiò in festa. Io volevo bene il Di Giovanni di vero cuore. Il suo malcontento continuava sempre più perché non gli piaceva la vita militare. Mi raccomandò di influire per farlo entrare nella Fanteria Militare, e l’ottenne. Neppure in questo fu contento. Mi raccomandò di occuparlo come confidente, ed anche riuscì allo intento. La famiglia di cui era confidente lo amavano come figlio, e che poi si diede occhio colla Signora Tenentessa…

   Nel 5 o 6 settembre del 1860, venne nel Quartiere mastro Pellegrino Di Giovanni con una penna nera lunga e sfioccante nel berretto, che poi non vidi, né chiese conto di me. Il giorno seguente fui chiamato dal Colonnello con urgenza senza dar tempo neanche di compormi. Vi andai e mi domandò se avevo visto Di Giovanni, risposi di no, avete visto il padre?. Si lo vidi ieri- Sapete se Di Giovanni tiene qui parenti o amici? Si.- ebbene componetevi ed andate a vedere e premuratelo di ritirasi subito in Quartiere che non sarà punito. Andai da Pellegrino Cafasso (aimè) dove era solito di andare, ed informai al Cafasso l’oggetto della mia gita, frattanto arriva mastro Pellegrino padre di Arcangelo, e gli raccontai il fatto. Mastro Pellegrino alla sua volta mi domandò conto di suo figlio brontolando. Ritornai al Quartiere e diedi la risposta al Sig. Colonnello che non sentì bene e m’impose di ritornare da Cafasso, e far ritirare senza meno Di Giovanni. Tornato da Cafasso mi disse, mastro Pellegrino è partito, e forse ritorna che vuole essere dato conto di suo figlio. Imbasciata che comunicai al Sig. Colonnello.

   Ritornato in paese mastro Pellegrino col figlio, dissero molto male di me, e bandire che io per farmi onore, avevo tentato di fare arrestare suo figlio. Dopo due giorni mammà mandò a chiamare mastro Pellegrino, col quale eravamo in ottimi rapporti, per dimandargli di me, ma non vi andò. Lo fece dimandare dal Canonico Caruso, al quale rispose, ù figlio non l’ò visto, e nè se ne vene perché aspetta che u fanno Generale per aversi interessato di fare arrestare mio figlio. Questa calunnia fu causa di tutti i guai della mia famiglia, e ciò in ricompensa di tanto bene.

   Con tutto questo bene di Dio, debbo gridare sempre: Viva l'Italia. Viva la libertà. Viva i Calunniatori. Viva gli assassini. Morte agli onesti.LOGOridotto

   (1) - Carteggio di Michele Severini – a corredo della “Monografia Storica”