ALESSANDRO DI TELESE
“DE’ FATTI DI RUGGIERO (1127 – 1135 )
……………..
COMINCIA IL SECONDO LIBRO
CAP. I
A persuasione dé suoi Proceri Ruggiero si accende del desiderio della dignità reale.
Il Duca Ruggiero avuto tanti lieti successi e vedendo che egli teneva con gran potenza tutte le terre di Boemondo e tutto il Ducato; che assoggettandosi a lui ancora il Principe de'Capuani e il Maestro dei militi napoletano e tutta la terra che si stendeva quasi sino ai confini della città d'Ancona, racchetate le contrarietà delle guerre, a lui si sottomettevano, si cominciò con assai frequenti e domestici ragionamenti di certuni e massime del Conte Enrico suo zio dal quale più degli altri era amato, a persuaderlo che non dovea più aver l'onor di Duca, ma della regal dignità dovea essere illustrato egli, il quale con l'aiuto di Dio dominava tante province della Sicilia, Calabria e Puglia, ed altre regioni le quali vanno quasi infino a Roma. Ed aggiungevano eziandio che si facesse Metropoli della Sicilia e sede del regno Palermo, la quale una volta a' tempi antichi si dice aver avuto re signori di questa stessa provincia, e poi , scorsi molti anni, esser rimasa insino ad ora senza re per occulto giudizio di Dio.
C A P. II.
Convocati i Baroni del regno, il Duca propone a disaminare il consiglio di assumere la regal dignità, che da tutti è approvato.
Intanto volgendo in animo variamente l'amica e lodevole suggestione di costoro e volendo di poi averne un consiglio certo e fermo, ritorna ín Salerno, non lontano dalla quale fatti a sé venire alcuni dottissimi ecclesiastici e le più degne persone, non che alcuni Principi, Conti , Baroni, insieme con altri de' più ragguardevoli uomini, come a lui parve, dette loro ad esaminare secretamente un affare ch'essi non s'aspettavaano. Ed eglino attesamente considerata la cosa, concordemente tutti insieme lodano, concedono, deliberano, anzi con calde preghiere fanno ressa che sia sublimato alla dignità reale in Palermo metropoli della Sicilia il Duca Ruggiero, il quale era Signore non pur della Sicilia redata dal padre, ma della Calabria ancora, della Puglia e di altre terre le quali egli aveasi conquistate con il suo valore, e di ragion gli cadevano per parentela ai Duchi antecessori. Perciocchè se è certo che la sede del regno fu un tempo in quella città per governare soltanto la Sicilia, e se pare esserle venuta meno da lungo tempo, egli è ben convenevole e giusto che posto il diadema sul capo di Ruggiero, non solo la sede dello stesso regno alla Sicilia si restituisca, ma ancora che si debba allargare sopra le altre regioni, alle quali già si scorge di dominare
CAP. III.
Nella città di Palermo si decreta l'elevazione di Duca in re.
Il Duca adunque fatto sicuro da' consigli e dalla sincere approvazioni di costoro, va in Sicilia, comandando alle province delle sue terre che tutti, in qualunque grado potestà e dignità si fossero, nel dì della solenne incoronazione, che cadeva in quello del natale di nostro Signore, ragunandosi in Palermo fossero presenti. Essendosi adunque intervenuti tutti al giorno stabilito e concorsovi insieme popolo senza numero piccoli e grandi, ricerca di nuovo solennemente e diligentemente la cagione di questa cosa e disseminata da tutti nella maniera che si è detto di sopra, a gloria di Dio e ad accrescimento della sua chiesa si delibera che al tutto nella città di Palermo si faccia l'elevazione a re. Dopo la quale gli fu conceduta cotanta virtù che a far vendetta de' malvagi e a conservar la giustizia già parea sopravvanzasse il suo stesso lignaggio con più grande acquisto di terre.
CAP. IV.
Il Duca nella Chiesa arcivescovile è unto re.
Il Duca dunque condotto a modo di re nella chiesa arcivescovile e quivi unto con la sacra unzione, avendo presa la regal dignità, non si può esprimere a parole, ne immaginar colla mente quale e quanta fosse allora in lui la maestà e nello splendore di re e nella mirabile abbondanza delle ricchezze. Veramente quella solennità agli occhi di tutti parve tale, come se tutte vi stessero raccolte le dovizie e gli onori di questo mondo. Indicibilmente festeggiava tutta la città, nella quale non era se non gioia e splendore.
CAP. V.
Degli apparati del palagio, e degli ornamenti de' cavalli che il menavano.
Ancora il palagio reale con le pareti di dentro d'ogni parte di solenni drappi addobbato magnificamente risplendeva. E il pavimento coperto da tappeti variamente colorati a quelli che vi camminavano su porgeva molto diletto. E nell'andar che fece il re alla Chiesa per consecrarsi , fu accompagnato da tutte le dignità e seguito da innumerevoli palafreni disposti in ordine, di selle e di briglie d'oro o d'argento guerniti.
CAP. VI.
I conviti del re fanno maravigliare gli altri Principi.
I commensali del re di assai grande e svariato apparecchio di cibi e di bevande erano serviti, e loro non fu ministrato che in piatti e bicchieri d'oro e d'argento. Ivi non era servo, che non vestisse seta, tal, che anche gli stessi servi che arrecavano a tavola, di vestimenti di seta eran coperti. Che più? la gloria e le ricchezze nella real casa parvero allora tante e tali e si ,belle che tutti ne stupivano e ne facevano le maraviglie grandi, in tanto che non poco timore si mosse pure in tutti quelli che di lungi erano venuti. Imperocchè aveano assai più veduto di quello che aveano udito per fama.
CAP. VII.
Il re incalza gli Amalfitani a dare in suo potere le fortezze, il che i cittadini negano di fare.
E fatte le solennità della regal coronazione, essendo ciascuno a casa tornato, cominciò il re a volger sollecito tra i segreti della sua mente inche modo di poi il suo regno, ciò che molto desiderava, rafforzasse e nessun potesse aver potenza di resistergli. Il perchè dagli Amalfitani cominciò più fortemente e instantemente a chiedere che lasciando tutte le fortezze, a lui le dessero in guardia, altrimenti affatto e in verun modo più non sosterrebbe che essi le tenessero a loro posta, ed essendoglisi tutti concordemente opposti e durando in questo loro ostinatissimo proponimento, il re adirato li disgiunse dalla sua fede e amicizia.
CAP. VIII
Ruggiero per assediare Amalfi fa venire l'Ammiraglio Giovanni ; Giorgio l'Ammiraglio costeggiando il mare con un naviglio fa che non si recassero soccorsi agli Amalfitani.
Chiamando adunque l'Ammiraglio di nome Giovanni, uomo in vero delle arti della guerra istruttissimo e valorosissimo, gli ordinò che quanto prima mettendosi in via, a comando di lui sollecitasse tutti ad affrettarsi di venire all'oppugnazione della ribelle Amalfi, e quegli tragittando lo stretto del Faro mentre intendeva a ragunare tutta la gente da battaglia di Calabria e di Puglia, Giorgio il grande Ammiraglio trattanto, uomo al re fedelissimo e negli affari secolari esercitatissimo, per comandamento dello stesso re , girando intorno ad Amalfi si pone ad osservare se per avventura possa prendere alcuni degli Amalfitani che vagavano pel mare, e insieme affinchè nessun altro da alcun luogo per la parte del mare appressando corresse a soccorrerli.
CAP. IX.
Il predetto Giorgio oppugna il castello Guallo, poi un altro il cui nome è Capri, e dopo non molto tempo Trivento.
Il quale mentre così andava esplorando la marina, avvenne che egli con impetuoso assalto prese un certo piccolo castello degli Amalfitani che si nomina Guallo, posto sul mare. Di poi un altro castello che si chiama Capri, ugualmente situato sul mare, circondatolo di navi, subitamente con istrage di molti l'assale. E postevi guardie del re, quinti passa ad assediare Trivento, altro castello degli Amalfitani, che il dinanzi mentovato Giovanni con l'esercito del re, fatto ivi venire, duramente stringeva.
CAP. X
Giovanni Sclavo difende il castello contra i soldati del re, a' quali incalzanti con maggior isforzo cedè Trivento. Moltissimi castelli all'arrivo del re sono occupati
Contro i quali Giovanni cognominato Sclavo, che sopraintendeva a quel castello, con ogni studio e con tutte le forze si adoperava di contrastar loro. Ma i guerrieri del re, vedendo fortissimo il castello, costruito uno ingegno, gagliardamente intendono a combatterlo con le macchine. Da ultimo con una lunghissima pertica, nella cui estremità era un uncino di ferro, con tutto lo sforzo rompono il contrafforte che volgarmente si dice Barbacane. E mentre così quelli di fuori ad atterrarlo con più calore erano volti, il suddetto Giovanni ciò vedendo è preso da timore. E vedendo che egli finalmente non poteva trovare alcun modo di scampare, e sé e il castello al re sottomette. Preso adunque Trivento , le falangi del re vanno ad assediare un altro castello degli Amalfitani, detto Ravello. E mentre il castello è da loro fortemente stretto con un'altra macchina di legno apparecchiata, non molto dopo entrato in mare colà giunse il re, dal quale non pur quel castello, ma certe altre terre ancora degli Amalfitani, ciascuna da un esercito assediata, sono terribilmente infestate.
CAP. XI
Moltissime fortezze degli Amalfitani cedono al re, che poco dipoi di tutta la provincia s'impadronisce.
Avvenne di poi che mentre la torre di Ravello, in cui più che nelle altre era posta grandissima speranza dagli Amalfitani, era scrollata da spessi colpi di pietre, non poca parte di essa rovina, il che veduto i Ravellesi cogli stessi Amalfitani incontanente caduti d'animo e di forze per il timore si consigliano di stringer pace col re senza indugio. Che più? Il re Ruggiero, come era suo desiderio, strettesi a vicenda le destre, riceve Ravello, Scala, Gerula, Poggerola ed altre terre degli Amalfitani, e così a suo piacere soggiogata Amalfi , torna in Salerno vincitore.
CAP. XII
Sergio Maestro de' militi a Ruggiero spontaneamente si sottopone.
E mentre quivi s'intratteneva, il Maestro dei militi della città di Napoli per nome Sergio, scorgendo in Ruggiero tanta efficacia di valore, non già dall'aspra guerra, ma sol dal timore atterrito, andò a lui e al suo dominio si sottomette, e quella città ( cosa maravigliosa a dire!) dopo l'imperio romano quasi da veruna spada mai non fu soggiogata, ed ora a Ruggiero si assoggetta per una sola parola fattagli anticipatamente intendere
C A P. XIII.
Riccardo fratello di Ranulfo storpia il legato di Ruggiero nelle narici e negli occhi.
Di poi il re perchè grave e dura cosa gli era, che Riccardo fratello del Conte Ranulfo si avvolgesse in tanta superbia da menar vanto di possedere egli la città d'Avellino e la rocca di Mercogliano, in modo che non sarebbe per aver signore nè lui nè verun altro, nè mai a chicchessia avrebbe servito, mandatoli innanzi da Salerno un'ambasceria, al suo dominio quelle terre sottomise. Dappoichè tanto già era il nome del suo valore che quasi a qualunque campo o città egli indirizzasse pur una parola di comando, senza alcuno indugio a lui si arrendevano. Essendo stato dunque ciò annunziato a Riccardo, prestamente acceso di gran furore e fatto demente dalla guerra, comandò che colui il quale aveagli fatta ambasciata, gittato a terra e tagliategli le narici, fosse della luce degli occhi privato.
CAP. XIV.
La Contessa Matilde sorella di Ruggiero senza saputa del marito va dal fratello, chiedendo che le si restituisse la dote
Ma la Contessa Matilde, di cui già più di sopra s'è fatta menzione, sentendo che il re Ruggiero suo fratello era di Alife pervenuto in Salerno, assente ed ignorandolo il suo marito Conte Ranulfo, andò da quello, dichiarando che ella in niun modo e in niun conto più tornerebbe al letto di Ranulfo, se tutta non le fosse restituita la dote, cioè tutta la valle Caudina con tutti i castelli che sono posti in essa. Della cui venuta avendo il re scorto una giusta cagione, desiderando spendere per lui il suo patrocinio, permise che ella a suo piacere appresso a lui rimanesse. Ché parevagli non essere al tutto ingiusto ciò che ella addomandava. Ed avvisava che quella altrimenti non poteva aver giustizia, se non le si fosse data facoltà di rimanere con esso lui per qualche tempo
CAP. XV
Il marito di Matilde domanda che gli sia renduta ella ed Avellino e Mercogliano. Risposta. di Ruggiero.
E il Conte tornato di Roma, dove era andato, avendo ritrovato che la sua donna erasi partita, ed Avellino e Mercogliano gli erano stati tolti, da gran tristezza d'animo è preso, non tanto perché avea perduto le predette terre, quanto perché scorgevasi esser stato così abbandonato dalla moglie. Per la qual cosa mandò a Montefusco, ove era il re, a pregar con maggior fervore che e la donna sua ed Avellino e Mercogliano gli fossero restituiti. Ma quegli a coloro che erano stati mandati, rispondendo diceva: Io veramente la moglie del Conte né tengo, nè di ritornare la sforzerò, perocché io non ne la tolsi; si domandi dunque la sua volontà e se avrà piacere di ritornare, io non la contradirò. Nondimeno pare giusto il chiedere quello che ella chiede, né le si deve certamente negare, poiché con. questa condizione della dote, che ella dice, egli a mia concessione tolsela in moglie. Avellino poi e Mercogliano non debbo restituire per questo che Riccardo fratello di lui, udendolo lui e tacendo, dichiarava che quelle terre gli appartenevano in modo da non riconoscere verun Signore sopra di sè, nè ad alcuno dover servire. Se dunque, dico, erano di suo diritto, come egli dice, perché mai, quando Riccardo, lui presente, affermava che egli non aveva alcun signore, egli non dichiarava di sua bocca che erano di proprio diritto? E ci ha ancora altra cagione per la quale non gli si debbono restituire quelle cose che chiede, poiché essendo io in Palermo e dolendomi, lui presente, della superbia del fratello che nè a me nè ad altri voleva sottomettersi per quello che occupava, egli tacendo piuttosto era sembrato d'acconsentire alle parole del fratello che mancava, che a quelle che da me erano dette. Nondimeno venga egli a me in Salerno con que'suoi anziani nobili che vorrà, e tutto ciò che di giusto da me si potrà esigere, sono pronto a sdebitarmene volentieri, con tal patto però che ancor egli a me di quelle cose che giustamente lo avrò accagionato, renda ragione.
CAP. XVI
Ritornando i messaggieri il Conte non approva gli ordinamenti del re; Ruggiero manda la sorella col suo figliuolo in Sicilia.
Ritornarono adunque i messaggieri del Conte, e quelle cose che aveano udite riferirono. Ma quegli, secondo il suo costume, mal consigliatosi, non curó d'andare a lui, come era stato comandato, scegliendo più tosto di mandare da lui chiedendo per mano di chi dovessero renderglisi quelle cose che si stimava essergli state tolte. E però il re gravemente sdegnato che egli era stato così disprezzato, e il Conte non avea voluto venire, condusse seco per mare in Sicilia Matilde sua sorella col suo figliuolo Roberto, che allora tenea presso di lei
CAP. XVII.
Il Conte temendo l'ira del re apparecchia la guerra.
Il Conte adunque sentendo che la moglie e il suo figliuolo erano andati tanto lontani, cominciò ad esser punto da stimolo di maggior dolore; avendo per certo che l'animo del re s'era già tutto contra di lui rivolto e che ancora, tornando la stagione estiva, sarebbe senza dubbio per piombare sopra di sè con un'oste armata. Onde pensò trattanto a fortificare tutte le sue rocche e alla guerra col re, se per avventura si fosse levato contro di lui, al tutto si dispone di opporsi.
CAP. XVIII.
Il re tornato in Sicilia chiama il Conte Goffredo a render ragione, il quale sentendosi reo cede a Ruggiero una parte delle sue terre.
Adunque il re Ruggiero dopo che tornó nella regione de' Siciliani, quivi indugia, infino a tanto che fosse ritornato il tempo opportuno all'uscire in campo, passato lo stretto del Faro, con vigorosa oste pervenne a Taranto, dove il Conte d'Andria Goffredo essendo secondo l'usanza venuto nella Corte di lui, il re accusandolo di certi misfatti, esigeva grandemente che di essi si facesse giustizia. Ma quegli considerando di non potersi scolpare per via di giudizio, essendo conte le colpe, si pensó di cedergli tranquillamente per questo una gran parte delle sue terre
CAP. XIX.
Il re assedia Bari. Ranulfo si studia di soccorrere Grimoaldo, ma per esortazione del Principe cessa dall' impresa.
Dopo queste cose il re, perché Grimoaldo Principe de'Baresi, spregiato la fedeltà di lui, s'era accordato co' suoi nemici, venendo sopra Bari per terra e per mare la cinse. Ma il Conte Ranulfo, come seppe che il re ebbe intorniata Bari, spinto dal suo zelo, raunata una moltitudine di cavalieri desidera recare aiuto al detto Grimoaldo, il quale il Principe suo Signore poco dopo chiamando con fatica lo persuase che cessando da essa milizia non entrasse a combattere colla terra del re in queste vicende, per qualsivoglia cagione; se prima per suoi ambasciatori non andasse da lui per vedere se per avventura le cose toltegli gli si restituissero. Mandandosi dunque per questo al re, il Conte a que' cavalieri che s' avea ragunato, di ritornare a'mpropri uffici comandó, e intanto comandó che stessero cheti.
CAP. XX.
Ruggiero assediando Bari, dopo tre settimane la prende.
Grimoaldo dunque con ogni studio e sforzo di guerra procurava di difendere la città contro il re che l' assediava, ma indarno: dappoichè con tanta prestezza è presa la città, mercé la sua giustizia, che non si occuparono più che tre settimane nell'assedio; quella città cioè che Roberto Guiscardo valentissimo Duca, per tre anni continui stringendola, appena potè pigliare. Preso intanto Grimoaldo è mandato in Sicilia per essere gittato in carcere
CAP. XXI,
Tancredi avutone il prezzo rinunzia al re le sue terre per andare in Gerusalemme.
Tancredi adunque di Conversano, uno de' principali Baroni della Puglia, avendo saputo che Grimoaldo già vinto era in carcere, e Goffredo, come già avvenne, avea perduto gran parte delle sue terre, tanto più cominciava a temere di se quanto che si sentiva d' essersi contra il re malamente confederato cogli stessi nemici. Il quale prima che interrogato di ciò nella Corte fosse giudicato, si consiglia che piuttosto allegando il pretesto di fare un viaggio al di là del mare, volontariamente venda al re Brindisi e le altre città e castella, che egli allora signoreggiava, e cosí schivando il giudizio, da quello si liberasse. Che più? Tancredi per ventimila schifati avuti dal re, rinunziò a tutte le sue terre per affrettarsi all' andare in Gerusalemme, dove egli era rivolto.
CAP. XXII.
I legati del Principe implorano che il re perdoni a Ranulfo, a' quali Ruggiero promette che altri ne sarebbero da lui inviati al Principe.
Intanto i predetti legati del Principe, essendo già Bari assalita, giunti al re, recarono le preghiere che per loro il Principe gli facea, di restituire cioè al Conte Ranulfo suo Barone Avellino e Mercogliano, ed oltracciò la moglie e il figliuol suo; altrimenti gli sarebbe per negare il suo servizio. Il quale udito questo, sdegnato disse loro: Mi maraviglio molto che il Principe di queste cose che a lui non appartengono, osi di sollecitarmi. Dappoichè perciò mi manda a dire tai cose perchè, presentatasi l'occasione, più non debba servirmi. Ritornate dunque da lui, annunziandogli anticipatamente ciò, che da me gli si dovranno tra poco mandar legati , pè quali avrà risposta alle sue parole. Tuttavia questa sola cosa per vostra relazione vogliamo che sappia per certo , che se per questa o per altra qualunque cosa si negherà al mio servizio, sarà tosto notato di delitto di spergiuro.
CAP. XXIII.
I legati del re vengono al Principe, e risposta di costui.
E ritornando quelli senza indugio, il re manda al detto Principe che raccolto un esercito andasse a Roma contra il nemico, in aiuto della chiesa romana, a cui il Principe diè così fatta risposta: Io in nessuna maniera sarò per obbedire ai comandamenti del re, se al Conte Ranulfo mio vassallo non si rendono le sue cose. Il che udito gli ambasciadori velocemente tornarono al re, per contargli tutto quello che egli avea comandato.
C A P. XXIV.
I1 Principe e Ranulfo, temendo il re sdegnato, si dispongono con le loro schiere nella valle caudina. Il re muove contro di loro le armi.
Intanto il Principe e il Conte Ranulfo temendo che per avventura dispiaciute al re le parole che gli erano state rimandate, non fosse per venire contro di loro armato, ragunate infinite schiere di cavalli, tengono prima il passo della valle caudina, e quivi trattanto pensano d'intrattenersi, affinchè il re, se mai si fosse mosso incontra di loro, non li avesse trovati sprovveduti a combattere. Il re dunque, intesa la risposta del Principe, non di buona voglia la ricevette, ed ancora sapendo che pure lo stesso Conte, raccolto non piccol numero di pedoni e di cavalieri, contro di lui si disponeva a guerra, fortemente sdegnossi, e movendo l'esercito venne ad un certo castello che si dice Crepacore e quivi comandò si piantasse il campo. Ma il Principe e il Conte Ranulfo conoscendo lui essere tanto vicino, avvisavansi che veramente incontra di loro affrettavasi, onde a tutto uomo si apparecchiavano alla difesa.
CAP. XXV.
Si rinnova l'ambasceria dal re al Principe, chiedendogli che gli permetta di andare a Roma per le sue terre, il che non ottiene.
Ma il re di nuovo sloggiando, si accampa a piè del castello di Montecalvo, e quindi al Principe , il quale abbandonata la suddetta valle, nel luogo che si chiama Cressanta, col Conte s'intratteneva, indirizzò la sua ambasciata: che per la sua terra di andare a Roma contro il nemico gli si permettesse ed insieme con esso lui anche egli ne venisse. Ma quegli dicesi d'aver dato cotale risposta: Nè per la mia terra che ei vada a Roma permetterò, nè insiem con lui v'andrò, se al mio Barone non sono rendute quelle sue cose. Ritornati adunque i messi del re , ciò che avean veduto ed udito, riferirono. Il re ancor questo udito, sel prese a male, e sloggiato, per la china del monte a piè del castello Paduli si accampa. Allora mandò di nuovo al principe che gli acconsentisse di passare prima per la sua terra, affinchè andasse a Roma contro il nemico; e così dopo quindici giorni, dopo che avrebbe fatto ritorno, che cosa si dovesse da lui fare, presso il ponte di S. Valentino, manifesterebbe. Ma quello subito nell'animo sdegnato e disprezzaudo il giuramento di fedeltà che fatto aveagli, rimandò a lui dicendo: Se prima al Conte Ranulfo non avrà restituito Avellino e Mercogliane ed ancora la sua donna ed il figliuolo, per niuna ragione e per niun modo a lui acconsentirò, nè ai suoi comandamenti obbedirò, nè permetterò che per la mia terra vada a Roma , ove d'andar desidera.
CAP. XXVI
Proccurando l'arcivescovo Landolfo che i cittadini giurino al re fedeltà, grandissimi rumori si levano nella città di Benevento.
Il re Ruggiero dunque considerando che l'animo del Principe si tenesse contra di sè così ostinatissimo, mandò al rettore beneventano di nome Crescenzo e all'Arcivescovo che si chiamava Landolfo, che tutto il popolo della città, salva però la fedeltà dovuta al Pontefice, a sè con giuramento stringessero, e quelli avendo cominciato con alcuni altri fautori del re a spingerli al giuramento, si leva per questo nella città un gran tumulto, in guisa che quasi tutta quanta la plebe contra di loro si commosse, non volendo rendere al re il giuramento di fedeltà. L' Arcivescovo e il Rettore, temendo la sollevazione del popolo, furon costretti ad abbandonar la città fuggendo.
CAP. XXVII.
Legazione de' Beneventani al Principe perché li aiuti. Il re riprende il Principe suo nemico.
Allora i cittadini al Principe e al Conte, i quali ancora nel soprannominato luogo con la espedizione guerresca indugiavano, fecero ambasceria che fedelissimi per iscambievole giuramento unanimamente al fatto del re s'opponessero. Ma il re vedendo che i Beneventani a lui non volevano unirsi, e l'animo del Principe, come è detto, era contro di lui ostinatissimo, mandò ad esso Principe, molto riprendendolo che verso di lui suo signore, che punto non l' avea offeso, avesse mosso le armi. E diffidando manda pure al Conte Ranulfo, il quale, secondo che avea saputo, avea sdegnato il principe contro di lui.
CAP. XXVIII.
Il Principe e il Conte movono per Benevento, entrano nella città, e accendono gli animi de' cittadini contro del re
Di poi il Principe e il Conte, sprezzando le minacce del re, tennero consiglio che quinti l'esercito movendo, alla città di Benevento s' appressassero, affinchè più da vicino posti, quello che da' cittadini era stato promesso, più facilmente conseguissero. Però di là partiti vennero a porre il campo lungo il castello di Pocone, non lontano dal fiume che si chiama Calore; talmente che tutti e due gli eserciti si vedeano l'un l'altro, non vi stando di mezzo che la città. Dopo il Principe e il Conte, entrati in Benevento e parlato a' cittadini, fermano con giuramento che s'osservassero certe condizioni convenute fra loro e così si tenessero scambievolmente fedeli contro del re.
CAP. XXIX.
Ruggiero assedia Nocera. Il Principe e il Conte partono con l'esercito a recare aiuto a' Nocerini. Il re, cessato dall'assedio, si dispone alla battaglia contra i nemici che sopravvenivano.
Il re dall'altra parte avendo conosciuto che essi s'erano confederati e che il Principe gli avea già del tutto negato servigio, acceso ed infiammato d'ira comandò che al dato segno si sloggiasse, ed andando a Nocera, grossissimo castello di esso Principe, la circondò d'assedio. Ma il Principe e il Conte ignorando dove il re si era ritirato, si consigliano di star quivi infino a tanto che si fosse scoperto per ove egli era partito; ed ecco il giorno appresso sanno subito che il re stava intorno al castello, e che con frequenti badalucchi lo infestava: quindi a poco si partono con le loro schiere, per recare celeramente aiuto agli assediati. Ed essendo pervenuti al fiume di Sarno, che denominasi Scafati, avvisandosi che presto il guaderebbero, imperciocchè per altre vie non poteano passare, trovarono che il ponte di legno che v'era sopra, già da un pezzo era stato dagli esploratori del re abbattuto, i cui legni nelle onde gittati, galleggiando erano andati a riva; e perciò dolenti che non poteano trapassare, furono costretti di soprastar quivi, infimo a che, rifatto il ponte con altro legno, vi potessero passare. Restaurato dunque il ponte, il re avendo saputo che i nemici già si preparavano a passarlo, lasciando l'assedio, comandò che tutti i suoi si armassero, affinchè subitamente andando loro incontra, appiccassero con loro battaglia.
CAP. XXX.
Data la battaglia, Ruggiero, uccisi i nemici, ne riporta subita vittoria.
Ma il Principe e il Conte udito che il re si era già accinto a venir loro addosso, cominciarono tanto più velocemente a passare cò loro soldati il fiume, quanto più vedevano esser loro vicina la battaglia. Essendosi dunque essi nel passaggio prima messi in arme, ordinata a puntone ciascuna schiera al suo luogo, secondo l'usanza di guerra, si apparecchiano a combattere. Ed essendosi dall'una parte e dall'altra gli eserciti a lento passo avvicinati, la prima schiera del re, abbassate le spade e punti con gli sproni i cavalli, cacciandosi contro la prima schiera della parte contraria, gagliardamente irrompe, di tal che l' intera coorte spaventata dall'impetuoso assalto, incontanente volge le spalle. Il che veggendo i capitani di dietro ed eglino stessi spaventati, per mezzo qua e là correndo, aprono ai fuggitivi la via. Il che veduto i pedoni, i quali erano stati posti indietro nelle loro file per rinforzo, anche essi dallo stesso timore compresi similmente piegano. E di quelli adunque che primi s'erano dati a fuggire, essendo inseguiti da' militi del re, alcuni, mentre fuggendo cercan via allo scampo, precipitando nelle acque, si muoiono, altri per lontane campagne, schivando il fiume, sparpagliati fuggono, e molti ancora dalle lance de'nemici sono cacciati giù di sella ai cavalli. De' fanti poi che si erano atterriti, grandissima parte, mentre per il timore cercan la via di sottrarsi, con molti altri sulla ripa del fiume fermati, nello stesso fiume caduti affogarono.
CAP. XXXI
Per valore del Conte e del Principe le schiere del re sono volte in fuga.
Il Conte Ranulfo adunque il guale, come gagliardo e valentissimo, si teneva nell'ala destra, tostochè vide i suoi così respinti, coll'asta in mano contro la schiera del re che stava dinanzi, primo si caccia; la qual cosa vedendo i suoi che erano a custodia del destro e manco lato, subito provocati dal suo coraggio , con esso lui sitnigliantemente gli avversari col far fronte incalzano, ed avendo dall'una e dall'altra parte rotte le punte delle aste, prendono le spade e d'ambo i lati si feriscono. E il Conte, avendo per forte percuotere spezzata l'asta, tosto messo mano al pugnale, si terribile colpo dette in capo nell'elmo ad un cavaliere che volea resistergli, che lo sciagurato intronato dalla dura percossa diè subito le spalle al feritore. E lui vedendo volto in fuga i rimanenti che stavano di qua e di là, incontinenti l'un dopo altro volti lo seguono; di poi gli altri che erano stati a guardia nel destro e sinistro fianco, vedendo i loro dare le spalle, tosto spaventati ancor essi subito con quelli fuggirono.
CAP. XXXII.
Lamento dell'autore sull'infelice riuscita della guerra, e lodi della costanza del re.
Consideri adunque in questo luogo nell' animo suo il prudente lettore, per qual giudizio di Dio avvenne, che al re Ruggiero, il quale innanzi in tutte le battaglie era rimaso vincitore, ora non fu data la vittoria. Ma quello che a me pare, ancora che ad esso re paia duro, nondimeno il dirò volentieri a sua correzione, perocchè forse egli stesso suo malgrado non ha permesso che si facesse il voler suo, essendosi l'animo di lui oltre misura levato in superbia Pei prosperevoli successi ottenuti, laddove dovea piuttosto umiliarsi, secondochè ammonisce la Scrittura la quale dice: guanto sei grand , tanto pù ti umilia. Imperciocchè siccome poscia si racconta, il re medesimo ora con proprie scritture, ora colla bocca accusandosi, d'essergli ciò debitamente accaduto confessava umilmente. Nondimeno soggiornando in Salerno si vedeva di volto cosi lieto e fermo di mente che sembrava non essergli avvenuto alcun che di sinistro, tenendo per certo che quella mala riuscita coll'aiuto di Dio in più felice fortuna essergli dovesse ricambiata , quando che fosse.
CAP. XXXIII.
Tancredi, udito il caso del re, raguna soldati. E’ accolto nella cita di Acerenza, dopo va a trovare Goffredo con cui stringe alleanza contro il re.
II sopraddetto Tancredi, veduto che il re col principe Roberto e col Conte Ranulfo ebbe battaglia nel piano di Nocera, e quivi combattendo, la fortuna non gli diè buon successo, si pente d'aver desiderato d'andare oltremare, e vendute le sue terre e rinunziate. E però per potere al tutto le sue cose ricuperare in Montepeloso, ove erasi a' conforti di que' terrazzani contro il re condotto, si credette di raccogliere soldati co' quali le terre del re, qua e là avvolgendosi, crudelmente infestasse. Eravi una certa città , Acerenza per nome, non solo per opera, ma per natura spezialmente assai ben fortificata, i cui cittadini, cacciato via il loro signore chiamato Polutino, sol perchè al re contro il loro desiderio si sottomise, ricevono Tancredi perchè li governasse e contro del re li difendesse. Dopo queste cose considerando che erasi presentato tempo assai opportuno a ricuperare le sue terre, andò a Goffredo Conte d'Andria e ad Alessandro. I quali insieme commettendo manifesto spergiuro contro al re, strinsero iniqua alleanza per combattere contra di lui , e mandò ancora a Roberto Principe di Capua e al Conte Ranulfo che senza di lui non facessero col re nessun patto e niuna concordia, poichè anche egli senza loro consentimento non sarebbe per fare con lui veruna amicizia o pace.
CAP. XXXIV.
I cittadini di Bari si apparecchiano alla guerra contro di Ruggiero , il quale temendo le insidie di Tancredi, con loro si pacifica.
Oltre a queste cose si racconta al re in Salerno che i Baresi già si preparavano a togliersi dalla sua soggezione, e che, d'ira infiammati, aveano ucciso alcuni Saraceni che egli avea mandati ad edificare la fortezza, perchè da essi Saraceni era stato ucciso un figliuolo di un nobile uomo. E perciò, contrastando i cittadini, era stata interrotta l'opera del castello reale, da edifìcarsi lontano dalla città. Ed il re sollecitato da questo sinistro rumore, fortificati i suoi castelli che erano intorno Benevento, andò a Bari, perchè era vicino a romperglisi guerra da Tancredi e dagli altri, non volendo allora inasprire il popolo di Bari, prudentemente acconsentì a certe loro dimande e così li lasciò cheti per qualche tempo.
CAP. XXXV.
Il re ritorna a Salerno, fortifica i castelli di soldati co' quali debba stringer Benevento; poi va in Sicilia.
Dopo queste cose il re, ordinate le schiere per combattere contro Tancredi e i complici della congiura di lui , fortificate tutte le sue città e castella in Puglia, novellamente ritorna a Saterno. E di poi mandando una più grossa guardia di soldati in Montefusco e Paduli comandò che, di fuori qua e là infuriando, incessantemente disperdessero i cittadini di Benevento, perché al Principe e al Conte più che a lui si erano congiunti, e loro proibì che niente, recato di Puglia, si vendesse in Benevento. Non molto dopo queste cose ritorna in Sicilia, per ritornar senza dubbio nella seguente opportuna stagione, con guerresca spedizione, ad oppugnar di nuovo e sottomettere a se i suoi ribelli.
CAP. XXXVI.
Il Conte e il Principe traggono nella loro amicizia Tancredi, Goffredo ed Alessandro, affinchè opprimano con maggior forza il re. Udendo che era venuto in Roma Lotario Imperatore, vanno a lui e preganlo che muova le sue armi contro Ruggiero, ma niente ottengono.
Mentre egli dunque indugiava in quella provincia, mai non cessava di meditare attesamente con quali modi i suoi nemici avesse a fiaccare. Per l'opposto Roberto Principe de' Capuani e spezialmente il Conte Ranulfo non tralasciavano con fine accorgimento di prender consiglio in che modo e come si dovessero contro di lui comportare, e a questo ancora agognavano che, privatolo dell'onor del regio potere, eziandio, se venisse lor fatto, di vita il togliessero. Onde avvenne che esso Conte per consiglio del Principe andando nella Puglia parlasse con Tancredi e col Conte Goffredo e col Conte Alessandro e con gli altri Baroni, cioè con quelli che già aveano apertamente spergiurato contro il re, affinché scambievolmente uniti in alleanza tutti insieme incrudelissero contro al re. Ed avendo fermata tra loro la cospirazione con ispergiuro, udì che il Re Teutonico per nome Lotario era giunto in Roma. Per la qual cosa fatto lieto, tosto di buon passo alle sue terre ritorna. Poscia preso consiglio col Principe, tutti e due parimente con somma fretta andarono da lui per domandargli soccorso contro il re Ruggiero, ma benché da lui fossero stati a grande onore accolti, pur non potettero ottenere l'aiuto di lui contro il re Ruggiero, come aveano sperato.
CAP. XXXVII.
Ruggiero con animo sdegnato movendo le arme contro i ribelli, Alessandro corre a Ranulfo, Roberto va a Pisa per domandare soccorso.
E mentre eglino in Roma appo il re si trattenevano, udendo che il re Ruggiero con immenso esercito di cavalieri e di pedoni avea già passato il Faro, chiesta e avutane licenza dal re quantunque non grata, quanto più presto possono ritornano alle loro terre. Ma il re Ruggiero appunto perché avea saputo la congiura de' sopraddetti Principi fatta con ispergiuro contra di lui, fu preso da tanto sdegno verso di loro, per furore usci tanto fuori di sé da non perdonare affatto nè al Conte nè al Barone nè ad altro qualsivoglia Milite, i quali cosí spergiurando aveano alzato il capo contro di lui. E il Conte Alessandro, forte temendo il re per il commesso spergiuro, lasciato il suo figliuolo che si chiamava Goffredo in un certo bene afforzato castello per nome Matera, fuggiasco venne al Conte Ranulfo. In questo il Principe Roberto vedendo che egli era defraudato del soccorso dell'Imperatore, con velocissima navigazione tiró a Pisa, per menarne con seco una mano di soldati a suo soccorso contro del re.
CAP. XXXVIII.
Il re occupa moltissime terre de' ribelli, espugna il castello di Matera nel quale fa prigione Goffredo figliuolo d'Alessandro le cui sventure si raccontano.
Avendo dunque il re pertutto occupato le terre di Goffredo Conte d'Andria e del prefato Alessandro, spergiuri contro a lui, cioè Acquabella, Corato, Barletta , Minervino, Grottole ed alcune altre, alla perfine si condusse ad assediare il predetto castello, ove stava Goffredo figlio del Conte Alessandro, e tanto tempo lo strinse d'assedio infino a che sottomettendosi di sua volontà Goffredo, prese ancora lo stesso castello. Il che udito il Conte Alessandro che per timore era fuggito, da infinita tristezza d'animo per lunghissimo tempo fu preso, di poi fuggiasco andando in Dalmazia, non pur spogliato delle sue terre, ma ancora fuoruscito é costretto a rimanere, il quale dopo non lungo tempo avviandosi per andare all'imperadore, essendo pervenuto ad un certo luogo boscoso, incontrandosi ne' ladri fu con tutti i suoi affatto spogliato, e dopo fermatosi in Avallone, da quelli che queste cose di sua bocca udite ci contarono, fu veduto vivere molto bisognoso e povero.
CAP. XXXIX.
Il re viene al castello Armento e l'ottiene.
Vinta dunque Matera, il re venne sopra Armento fortissimo castello, ove era Roberto fratello del predetto Goffredo, il quale, stretto d'assedio, tosto sè e il castello al re sottomise. Dopo essendosi negato di dare per sè quell'ostaggio, che il re avea domandato, è mandato in Sicilia a dover esser messo in catene.
CAP. XL.
Si prende il castello Auso. Goffredo é mandato in esilio.
Dopo di ció il re sloggiando s'affrettò di andare sopra un certo arduo e fortissimo castello detto Auso dove sopraintendeva il Conte Goffredo, e lo cinse di crudelissimo assedio, infino a che imprigionato colla pena di esser cacciato di nuovo in esilio, è destinato in Sicilia a pagare il fio dello spergiuro.
CAP. XLI.
II re assedia Montepeloso. Tancredi accorre in aiuto degli assediati. Le schiere con varia fortuna dell'una parte e dell'altra si azzuffano.
Terminate intanto queste cose, s'affretta ad assediare Montepeloso. Ma Tancredi, udendo che il re era per venir subito contro di liti, incontanente lasciato un certo borgo per nome Orso, che da lui allora era assediato, ritorna con tutta prestezza a difendere la predetta città, alla quale il Conte Ranulfo avea già diretto in suo aiuto quaranta e più militi, guidati da Ruggiero di Flenco il più gagliardo capitano e nemicissimo al re. Circondato dunque d'assedio Montepeloso, Tancredi a resistergli si prepara con tutte le forze. Perciocchè innanzi al barbacane di essa città era un cotal luogo che si diceva Catuvella, munito da non piccolo argine di terra, nel quale quasi tutta la città stava ragunata a combattere. Nel qual luogo invero, mentre la regia coorte, quelli scacciatine, rompe con violenza, Tancredi co' suoi fortissimamente risospingendoli, li costringe a dare le spalle, abbandonato l'argine. Poscia i regii combattitori ripigliando animo, novellamente facendo impeto contro a Tancredi e i suoi, rincacciati quelli. ricuperano l'argine. Tancredi intanto e i suoi da quel luogo del tutto respinti, si ricovrano dentro il barbacane.
CAP. XLII.
Destrezza del re con cui più facilmente espugna Montepeloso.
Ma il re pensando che la città era assai ben fortificata ed eravi moltitudine di gente agguerrita, si rivolge all' ingegno, cioè come fosse assalito per perizia d'arte il castello, nelquale combattendo non si era potuto entrare. Laonde costrutta una macchina, il re conducendola a poco a poco, comanda che s'approssimi ove si vedeva la città esser meno fortificata, nel qual modo quelli di fuori combattevano da presso co' cittadini, l'una parte e l'altra lanciando dardi. In questo mezzo poi mentre cosi dall'una parte e dall'altra si combatteva, i Saraceni per quella macchina con gran gagliardia gittavano legni, co'quali si empisse il fossato, ed altri con rastrelli di ferro con sommo sforzo strappando dall'argine la terra e questa gittando su quelle stesse legue, si sforzavano di appianarlo.
CAP. XLIII.
I soldati del re si studiano di rovinare con gli uncini di ferro il barbacane.
Tancredi dunque vedendo il fossato essersi riempito, incontanenti per bruciarlo s'affretta di porvi dentro il fuoco e l'esca, affinché più facilmente si accendesse. Ma scorrendovi entro acqua introdotta per un canale di legno , s'estingueva il fuoco che eravi messo, e questo spento, di nuovo quelli che erano nella macchina con lunghissima pertica, nella cui cima era un grande uncino di ferro, incominciano a svellere esso antemurale che volgarmente dicesi ancora barbacane. Ma quelli che guardavano il barbacane, vedendo una pertica che scrollava il barbacane, presela con gran forza la tagliano. E cosi altre pertiche per la terza volta stese a rovinarlo, per la terza volta ancora essendo state da quelli tagliate finalmente acremente stendendone un'altra, non piccola parte di quello rovinarono.
CAP. XLIV.
I cittadini ricovrandosi in altra parte, l'esercito del re assale l'abbandonata città, infino a che i difensori si arrendano.
Ed essendosi i cittadini a veder ciò sbigottiti, tutti si misero in volta ed entrati per la porta si riparano in altra parte della città, la quale era più forte per la munizione. Velocemente la falange reale nella porta entrando, li perseguitano e quelli che loro vengono a mano, tutti ferendo abbattono. I cittadini adunque, i quali nell'anzidetta parte della città si erano raccolti, vedendo non poter essi trovare alcuna via di scampare, a' nimici pigrametle resistendo, li lasciano entrare in quella parte di città
CAP. XLV.
La città é occupata dal re, i ribelli son presi.
Essendo adunque la città così occupata da guerrieri del re, che qua e là infuriando la saccheggiavano, Ruggiero di Plenco, di cui innanzi si è fatto menzione, fatto prigione è menato dinanzi al re per essere ucciso. E per severo comando del re cercandosi di Tancredi che stavasi nascosto, alla perfino da un certo uomo tradito, è presentato avanti al cospetto del re, il quale vedutolo, d'averlo ritrovato si tenne il più lieto uomo del mondo.
CAP. XLVI.
Ruggiero nemico del re è impiccato. Tancredi é mandato prigione in Sicilia. La città é atterrata.
Dipoi l'infelice Ruggiero, il quale non prevedendo la grande sciagura che gli dovea incogliere, da un pezzo si era con assai mal talento sfrenato contro il re, orribilmente di laccio fu morto. Tancredi infine, benché la sentenza di morte gli fosse risparmiata, pure è mandato in Sicilia ad essere stretto in catene. De' militi poi parte, per non esser tenuti cavalieri, con le più vili vestimenta travestiti, abbandonate le armi e i cavalli, fuggendo per luoghi fuori mano, camparono , e parte datisi a fuggire e così schivando d'esser presi, si ricoverarono alla città di Acerenza, la quale era per Tancredi; altri ancora, i quali erano stati colti chi qua e chi là, sono mandati ad essere incarcerati. E dipoi la stessa città sgomberata affatto delle robe e data alle fiamme, finalmente è atterrata. Ora pertanto consideri qui diligentemente il lettore, quanta scelleratezza sia il commettere il delitto dello spergiuro e massimamente quello, quando alcuno assicura con giuramento la vita, la persona e l'onore del signor suo e di non tendergli insidia e poi non osserva il giuramento. Però se Grimoaldo, Goffredo, Tancredi e il Conte Alessandro e altri ancora, essendosi assoggettati a Ruggiero, verso di lui non osservarono il giuramento della fedeltà , meritamente per vendetta della giustizia divina sono di ciò con degna pena castigati. Perciocché loro accadde come si sa essere avvenuto al re Sedecia. Dappoichè avendo egli al re Nabuccodonosor giurato un certo patto, e poi spergiurando non osservatolo, venne Nabuccodonosor a Gerusalemme ove era Sedecia e l' assediò, il quale veggendo non poter esso scampare da lui in alcun modo, mentre uscendo di città cercava fuggire per campare, da soldati di quell'esercito inseguito, co' suoi figliuoli che l'accompagnavano, fu preso. Ed essendo stati il padre e i figliuoli presentati al re Nabuccodonosor, incontanente sotto gli occhi del padre i figli di lui comanda sieno uccisi, e così egli stesso finalmente privato della luce degli occhi, a dover essere fra ceppi ristretto con altri prigionieri è tradotto in Babilonia. E’ chiaro dunque dall'esposta infelicissima rovina di costoro doversi del tutto fuggire lo spergiuro, dappoiché chi disprezza quello che non si dee fare, sarà così da Dio disprezzato che ne abbia quando che sia senza dubbio degna pena, come pure avvenne a costoro. Ora intanto riprendiamo il filo della narrazione, dalla quale ci siamo alquanto scostati.
CAP. XLVII.
II re si dispone ad assediare Acerenza: dopo muta consiglio.
Adunque il re Ruggiero, incendiato ed abbattuto Montepeloso, s'affretta ad assediar Acerenza, ma dipoi considerando che egli né allora poteva aver facoltà di pigliarla, promise di far coi cittadini concordia a questo patto che il suddetto Polutino che essi aveano cacciato, fosse nel loro dominio rimesso, per doversi cioè sottoporre alla sua signoria.
CAP. XLVIII.
Ranulfo , saputo il pericolo de' suoi soci, rinnova l'alleanza co' Beneventani , dopo con l'esercito si ritira nella valle caudina.
Ma il Conte Ranulfo, udita la prigionia di Tancredi e insieme la nefanda impiccagione di Ruggiero, è preso da immenso dolore d'animo, non tanto per la loro trista fortuna, quanto ancora perché era privato del loro grande aiuto. E considerando eziandio che il re, vinti quelli, sarebbe senza dubbio per piombare sopra di lui, sollevato finalmente l' animo dalla tristezza, si rivolge del tutto a difendere sè stesso. Andando dunque a Benevento e quivi rinnovata tra sè e i cittadini quella concordia, che già scambievolmente si aveano pattuita, senza ritardo se ne ritorna. Dopo ragunato presso la valle caudina non poca gente di pedoni e cavalieri, aspetta alla battaglia il re, il quale egli stimava dover incontra di lui venire, alla cui spedizione s'accordavano Sergio Maestro de' militi e Ugone Conte di Boiano.
CAP. XLIX.
Il re assale Bisceglie, occupa Trani, in Bari atterra le torri, finalmente va a Troia.
Adunque il re venendo sopra Bisceglie paese marittimo, senza ritardo l'assale, le cui mura attorno attorno distrutte, quinti movendo sopra Trani fece porre il campo: la quale città invero da sì gran terrore di lui è scossa che subito sottomessasegli, per suo comando tutte le torri ancora ne sono distrutte. Di poi venendo a Bari, la quale a' cittadini, a loro volere, siccome sopra è detto, avea lasciato, tutte le loro rocche distrutte, quivi ancora il castello, la cui edificazione era stata interrotta, comandò si rifabbricasse. Egli dopo, guidando l'esercito, torna a Troia, la quale città, perchè assai ben munita sovente eragli stata più riottosa, in gran parte spartitala in più casali, fortifica.
CAP. L.
Ranulfo spaventato dal vicino arrivo del re move per Napoli, chiede soccorso dal Maestro de' militi e l'ottiene.
E il Conte Ranulfo udendo si vicino l'arrivo del re, sospettando che verso di lui sarebbe per venire, più fortemente s'accende a fortificarsi, onde subito va a Napoli e ivi parlato col Maestro de' militi e cò cittadini, tutti sollecitò in suo aiuto; di poi tornato ad Aversa, tutti quelli che erano atti a portar armi, ad uscire in campo confortò. Poscia ritornò alla valle caudina ove avea lasciato l'esercito, aspettando il Maestro de militi e tutti que' che mancavano.
CAP. LI
Riccardo dà in iscambio al re la rocca di S. Agata.
In questo mezzo mentre il re s'intratteneva in Troia, Riccardo figliuolo di Roele, avutone un altro in iscambio, dà il castello che si chiama di S. Agata a lui che il voleva. Imperocchè egli molto desiderava quel castello, perché posto su difficile monte, a quasi tutta la Puglia stava a cavaliero, ed egli con quello potrebbela in grandissima parte difendere.
CAP. LII
Il re incamminandosi a Melfi punisce la superbia della città d'Ascoli.
Abbattuta dunque Troia, il re quindi partendosi mentre andava a Melfi, nel viaggio stesso fiaccò parimente la superbia della città d'Ascoli, perocchè comandò che del tutto distrutta rimanesse a piana campagna, divisa cioè in tre casali. Il Conte intanto avvisandosi che il re allora non fosse inteso a venir contro di lui, ma che indugiasse vicino Melfi , col suo esercito a casa si ritirò.
CAP. LIII.
Stabilite le soldatesche intorno Benevento e Capua, Ruggiero va in Sicilia
Ma il re partendo da Melfi venne nella città di Gravina e quivi alquanto indugiato tornò dopo in Salerno, godendo ed esultando che vinta tutta quanta la Puglia, soltanto rimanevagli a vincere in battaglia Benevento e il Principe Roberto e il Conte Ranulfo e Napoli. Per la qual cosa egli posti i soldati intorno a Benevento e Capua, diligentemente comandò che infino a quando non fosse egli tornato dalla Sicilia con gente d'armi, essi di fuori mai non cessassero di saccheggiarli. E dopo queste cose, prima che subentrasse il fastidio dell'inverno, sopra nave va in Sicilia.
CAP. LIV.
Approda a Salerno, riunisce i soldati, incendia il castello di Prato ed altri si rendono al re.
Ed essendosi colà intrattenuto sino al tempo da uscire in campo, novellamente colle sue navi giunse in Salerno e comandò che innumerevole moltitudine di armati, che da ogni parte concorreva, si ragunasse presso il castello di Apice. Credendosi adunque che egli dovrebbe assediar Benevento, incontanente mossa la espedizione guerresca, assalendo un tal castello detto Prato, lo diè alle fiamme e del tutto distrusse. Di poi tre altri castelli spaventati dal timore di lui, l'un dopo l'altro arrendendoglisi prende, a' quali però, perchè si erano ridotti volontariamente alla sua ubbidienza, perdonò; ed a questi castelli aveva comandato Radulfo di Framedo sotto il dominio del Conte Ranulfo, de' quali uno era detto Grintlia, altro Simondo e il terzo Alzacunda.
NOTE E DILUCIDAZIONI.
Le note e dilucidazioni alla Cronica di Alessandro di Telese sono del sig. Naldi Michelangelo.
51) P. 122, v. 31 (32).—Dallo stesso Pellegrino questi nomi di Castelli, cioè Grintlia, Simontum et Alzacunda sono letti così Gructa , Submontum ed Alta o Alzacauda. Essi corrispondono a Grotte, il cui distretto è Salerno; a Summonte il cui distretto è Mercogliano , ed Altacoda. Cosi il Muratori all'anno 1131 annal. di Ital. dice: A Salerno radunati i Siciliani e Pugliesi s'impadronirono del castel di Prata e nello stesso giorno Ruggiero sottomise Altacoda, Grotta (oggi Grotte ) e Sommonte. Ved. le note a Falcone Beneventano.
CAP. LV.
Ranulfo prende i castelli Palma e Sarno. Il Principe Roberto ritorna da Pisa.
In questo mezzo il Conte Ranulfo si interteneva nel luogo che si dice Cressanta, con pochi che erano seco e il cuor suo era tormentato da immenso dolore, perchè circondato da piccol numero di guerrieri, non poteva secondo sua volontà andargli contro, onde mandando frequentemente á suoi Principi e a tutti i Baroni li conforta di andare frettolosi a lui per battaglia. E mentre aspettava stupefatto i loro successi, ecco che il re avvisando di tornare nuovamente ad assediar Benevento, subitamente, levato il campo, assale con gran prestezza il castello d'un certo nobile Principe di nome Annonio, che chiamasi Palma. Dopo ciò tosto raccolse la sua gente per assediarne un altro che si nomina Sarno del quale era signore un ottimate di esso Principe per nome Enrico: le quali cose sapute il Conte coprendo coraggiosamente la tristezza dell'animo, subito a Marigliano, terra di Roberto di Medana, ritorna co' suoi che allora erano seco, ed ivi cominciò ad aspettar bramosamente il Principe Roberto il quale, già ritornato da Pisa, attendeva l'aiuto de' Pisani e Sergio maestro de militi e tutti i Baroni di esso Principe e i suoi, affinché con tutti questi al fiume di Sarno col provocare a battaglia il re, lo distogliessero dal pigliare il contado.
CAP. LVI.
Una certa torre lungo il fiume Scafati è pigliata dal re per resa. Il ponte è distrutto. Il Principe di nuovo va a Pisa.
Essendosi adunque già gran parte radunata colà, ed aspettando essi tuttavia bramosamente per la troppo pochezza altra gente, ecco si annunzia essersi il predetto castello pigliato dal re. Dipoi è presa la torre che era nell' anzidetto fiume di Scafati, essendo stati improvisamente di gran timore compresi i castellani che gliela resero, e così il ponte di legno che eravi di sopra, gittati giù nelle onde i legni, è tutto distrutto, affinché per esso il fiume medesimo non potesse essere passato da chiunque era per contrastare al re, per il qual ponte, perchè per altra via non si poteva passare, l'esercito raccolto in Terra di Lavoro, come già di sopra è stato detto, aveano pensato di passare per opporsi al re. Laonde erano ancora presi da non piccolo dolore non tanto per la presa del castello. quanto perchè fattosi il re signore della suddetta torre aveano perduto il passaggio del fiume. Poi il Principe tostochè seppe essere stata pigliata la detta torre, vedendo che l' aiuto de' Pisani che si sperava subito, era lungamente differito, messosi nuovamente in mare, ritornò frettoloso a Pisa, per menar seco il più presto che potesse quelli che egli già a% casi a sua difesa chiamati con mercede di molte migliaia di marche d'argento che loro avea promesso.
CAP. LVII.
Il re assedia Nocera. I Nocerini valorosamente resistono.
Occupato adunque Sarno, incontinente il re, dopo che fu ben fortificata da' custodi la suddetta torre per impedire il passaggio del fiume, circondò d'assedio in Nocera il grandissimo castello del Principe, il qual castello veramente è rafforzato non sol dalla posizione del luogo, ma eziandio maravigliosamente era sostenuto dal coraggio delle forze de' combattenti. Essendo stato adunque tentato da que' di fuori con uno asprissimo assalto, da quelli che erano dentro per contrario, aiutando ancora la difficile posizione del luogo, con sommo sforzo era difeso.
CAP. LVIII
Ranulfo cerca di passare il fiume sopra le galee, ma per l'infelice riuscita contristato ritorna.
Ma la spedizione raccolta in Terra di Lavoro, soggiornando ancora nel suddetto luogo, aspettava, se comunque e da qualunque luogo passando pel fiume, potesse ovver no andar contro del re e, provocatolo a battaglia, allontanarlo dall'assedio del castello. Per la qual cosa il Conte Ranulfo, radunato non piccol numero di galee, va al predetto Scafati a spiare se colà a sé e a tutti gli altri fosse libera facoltà di passare. Ma perchè tutte le vie erano state già fortificate dalle guardie del re, né si poteva da loro in alcun modo passare a guado, subito tornato a' suoi commilitoni, con esso loro si affliggeva molto nell animo che senza aver fatto resistenza, fossero costretti a così rimanere.
CAP. LIX.
Arti di Ruggiero per ottenere il castello, dalle quali spauriti i difensori promettono la resa.
In questo il re Ruggiero considerando la moltissima difficoltà di assalire il castello, s' arma di destrezza d'ingegno, affinché quello di che non poteva per forza di battaglia impadronirsi, acquistasse per artifizio di macchine. Comandando dunque che si apparecchiasse una macchina di legno stabilì, che si avvicinasse al luogo dove più acconciamente e men vicino vedevasi. Ed essendo già così vicino che per quella tirando pietre le mura cominciavano a scuotersi, subito ne' terrazzani perduti d'animo s' ingenera timore e si desidera pace col re. Onde alcuni principali tra loro ragunatisi in un volere, uscirono innanzi al re, chiedendogli che a loro e agli altri paesani ed ancora a quelli che erano nel campo promettesse impunità, oltre al mantenere in piè il castello, e così dopo senza dolo essi col loro castello a lui si sottometterebbero.
CAP. LX.
Nocera cede al re, fermati i patti tra loro.
Fattasi dunque dal re promessa di ciò, tornano dentro e tosto si consigliano della resa della cittadella con Ruggiero di Sorrento chiarissimo tribuno de' militi, e con altri soldati, spezialmente con que' del Conte, chè loro non parea aver presto soccorso. Perciocchè, dicono, era meglio per loro che al re si sottomettessero, piuttosto che ancor essi pericolassero, assalito ed abbattuto il castello. Le quali cose udite, tutti da prima contrastarono che ció si facesse, di poi stretti dal terror del re, consentirono alla resa del luogo. E avutosi dal re a questo modo il castello, il suddetto Ruggiero e tutti gli altri che eranvi accorsi per difenderlo, sono presi secondo l'impunita loro promessa dal re, e così poi dato il giuramento, sono lasciati andare
CAP. LXI.
Il re invade le terre del Conte Ranulfo.
Presa dunque Nocera e mandatovi una guarnigione il re volge del tutto l'animo ad occupare la terra del Conte Ranulfo. Onde riunito l'esercito tenne per Paduli e quindi mosso, corre per avere il castello detto Ponto, il quale un certo Barone per nome Balduino teneva sotto la suggezione del Conte Ranulfo, e gli abitatori di esso vedendo di lungi la immensa gente d'arme spedita, incontanente sbigottiti, accostandosi quella senza niuna resistenza, la lasciano entrare. E pigliato Ponto, nello stesso dì va ad assalire il castello che si dice Limata, che tosto preso e saccheggiato, alla fine col fuoco è interamente distrutto: perciocché era ancor questo d'un altro Barone del suddetto Conte, il cui nome era Radulfo di Bernia.
C A P. LXII.
Ranulfo chiede pace al re.
Intanto il Conte Ranulfo s'interteneva in Marigliano, e per relazione avendo saputo essergli state tolte tante terre, con molta tristezza d'animo frettolosamente esce a ricuperarle , accompagnato da' galeati , e mentre passava pel borgo detto di Ducenta , ivi da' suoi con ogni istanza è consigliato che, prima che si privasse di tutti i suoi, di farli anticipatamente entrare in pace col re si studiasse. Mandata dunque veloce ambasceria al re, lo richiede della pace, e di sommettersi in tutto al suo valore gli promette. La quale ambasciata il re intesa, tosto pose freno al suo furore, cessando da più oltre occupar le terre di lui; infine scrivendo il patto della concordia, mandò a lui dicendo che secondo che la penna gli annunziava, cosí l'accoglierebbe in pace, restituendogli e la moglie sua e il figliuolo, a questa condizione però che le restituisse la dote, per la quale si erano da lui partiti, e lascerebbegli all'atto tranquille le terre che sopra di lui avea ottenute per battaglia. Ed egli, quantunque tutte queste condizioni gli fossero gravi, nondimeno per non aver a perdere tutte le sue cose, più tosto si delibera a sottometterglisi, come quegli avea comandato.
CAP. LXIII.
Ranulfo é dal re accolto benignamente.
Venendo dunque a lui ginocchioni, gli volle baciare i piedi, e avendolo egli con le proprie mani sollevato dal baciargli i piedi e volendo con un bacio di sua bocca accoglierlo, il Conte prima lo prega che al tutto dal cuore ponesse giù lo sdegno. E il re, di cuore, disse, lo pongo giù. E quegli: voglio altresì che siccome io ti avrò servito, così tu mi ami. E quegli: ed io tel concedo. Di nuovo dice: di queste promesse che vicendevolmente abbiamo fatto, voglio che testimone sia Dio tra me e te. E quegli disse: sia. Le quali cose dette, il re subito il baciò e lungamente fu veduto starsi abbracciato con lui, tal che furon visti alcuni circostanti mandar lagrime dagli occhi per l'allegrezza.
CAP. LXIV.
II re propone al Principe le condizioni della pace da osservare. Ugone di Boiano, temendo lo sdegno del re, implora perdono. Sergio Maestro de' militi disprezza i comandamenti del re, al quale si unisce Raimpoto.
In quanto al Principe poi pensò d'accoglierlo nella sua pace, a questa condizione che se facesse ritorno infino alla metà del mese di Agosto, non sarebbe privato della sua dignità, se pure voleva essergli suggetto secondo che erasi fermato nella capitolazione, ritenendo però sotto la sua signoria qualunque cosa avesse in guerra acquistato. Se poi per avventura gli mancasse l'animo di ritornare, concederebbe il principato al piccolo figliuolo di lui per nome Roberto, con questo patto però che egli ne terrebbe il governo, infino a chec giunto alla legittima età potesse esercitar la milizia. Che se ancor questi tenendosi lontano facesse scorrere il predetto termine, il re di poi si farebbe signore del principato di Capua e a sé soggetterebbe senza colpa alcuna l'omaggio di tutti i Baroni. Ma il Conte dí Boiano Ugone, prevedendo che lo sdegno del re cadrebbe sopra di lui, perché erasi unito contro del re col Principe e col Conte, venne a domandargli con molte preghiere il perdono che in vero per nessun modo potè ottenere, se prima tutte le sue terre, lungo le quali verso oriente scorre il fiume Biferno, non gli avesse lasciato ed ancora Castellammare situato dove il fiume Vulturno segna il fine del suo corso. E Sergio Maestro de' militi, secondo che dal re si esigeva, negava allora di assoggettarsi a lui e di servirgli, a cui poscia Raimpoto tribuno de' militi beneventano, intesa la pace del Conte, per temenza abbandonando subito la città, fuggì via accompagnato da quasi cento uomini armati di corazza.
CAP. LXV.
Il re andando al monistero telesino onorevolmente é da' Monaci accolto.
In questo il re, sapendo che gli era vicino il monistero di Telese, volle andarlo a vedere e raccomandarsi alle orazioni de' frati. Venuto adunque al monistero, onorevolmente, come gli si dovea, da' frati che incontro gli uscirono, con inni e lodi è ricevuto, ed essendo compiuta la sua orazione davanti all'altare", entrato nel capitolo, baciato ad uno ad uno i frati, dopo umilmente e riverentemente per mano di Alessandro Abate di essa congregazione ricevè la loro santa società di fratellanza, ed ancora promettendo di dar divotamente ad esso monastero alcuni beni, lieto ritornò all'esercito donde era venuto, accomiatatosi da' frati.
CAP. LXVI.
Il re va alla città di Capua e si descrive la natura del luogo e del nome.
Dopo il terzo dì poi, di bel mattino partendosi ebbe Capua, nobilissima città, arrendendosi a lui i cittadini e tutti i principali uomini di Terra di Lavoro. La quale città essendo metropoli, per questo, come dagli antichi s'insegna, ebbe tal nome o perché è capo della Campania, o perché si gira in una lunga pianura di campi, o come pare a certuni, è detta Capua dal suo fondatore Capi. E città, molto grande per ampiezza, di mura e di torri d'intorno è assai ben munita, e per mezzo alle mura scorre il fiume Volturno, nella cui corrente sono moltissimi molini galleggianti su le acque, commessi a funi di canape. Sullo stesso fiume vi sta ancora fabbricato un ponte di mirabile grandezza e con maraviglioso artificio costrutto, il quale dando il passo a quelli che v' entrano ed escono, da una parte mette alla città, dall'altra ad un borgo molto lungo. E ancora una città ubertosissima di granaglie e di vini e di carni e di diverse mercatanzie, ed è pure frequentata da gran popolo, e quel che è più, è sopra ogni altra nobile per la dignità del principe.
CAP. LXVII.
Entrato nella città è ricevuto dal Clero e dal popolo capuano con onore. Sergio Maestro de' militi giura fedeltà al re.
Essendo adunque il re per entrare in essa città già a lui soggetta , da una processione già ordinata di chierici e di tutto il popolo, onorevolmente, come era conveniente, è ricevuto e infino al Duomo con inni e lodi è menato. Dipoi uscito subitamente fùori dimandava a Sergio Maestro de' militi che, venendo tosto, a lui si sottomettesse, altrimenti s'aspettasse d'essere senza dubbio alcuno stretto d'assedio. Ma quegli temendo non il re da lui sprezzato sopra di sè piombasse e la sua città assalisse, deposta la baldanza, venne a lui e co' ginocchi piegati e mettendo le sue mani nelle mani di lui gli prestò omaggio e giurò fedeltà. Cosa a fè mia molto stupenda, dappoichè, come già è detto nel secondo libro, Napoli, che dopo l' impero romano non potè mai essere con la spada soggiogata, ora parve essere da un solo cenno costretta.
CAP. LXVIII.
Il re s' accampa tra Morcone e il Ponte Landolfo.
E senza indugio, dopo queste cose il re, ragunato l'esercito lo mena a porre il campo tra Morcone e Ponte Landolfo per dare a Roberto figliuolo di Riccardo tutte le terre che il Conte di Boiano si è detto avergli lasciate perocchè mentre era provocato dalle guerre di esso e degli altri, gli avea promesso le predette terre quando avuto il trionfo se ne fosse impadronito, a meno che, mentre egli faceva le sue guerre, non fosse trovato infedele.
CAP. LXIX.
I Burrelensi prestano omaggio al re.
Mentre ivi dal re si faceva soggiorno, i Burrelensi signori di quella città, temendosi l'arrivo di lui, si brigano di prevenirlo, affinché sottomettendogli la loro signoria subitamente, lo placassero. Dipoi tornato a Benevento, e quivi piantate le tende fuori la città, si fece, salva la fedeltà verso il Papa, fedeli quei cittadini col giuramento.
CAP. LXX.
Raimpoto sommerso nel mare col figliuolo. Ruggiero, congedati i suoi soldati, va a Salerno per passare in Sicilia.
Del resto il sopraddetto Raimpoto presentendo che il napoletano Maestro de' militi erasi per accordar col re, incontanente imbarcatosi, mentre fuggendo voleva andare a Pisa , sopraffatto da una tempesta di mare soffogato nelle onde col suo figliuolo annegò. Il re finalmente vedendo essergli ogni cosa prosperamente avvenuta secondo i suoi desideri e d'avere a sua posta sottomessi tutti alla sua suggezione, colà dividendo la sua gente d'arme, permise che ciascuno tornasse a casa, ritenutasi la sola cavalleria che sosteneva del proprio danaro. Dopo andando a Salerno e quivi poco intrattenutosi, coronato della gloria trionfale festevolmente ritorna in Sicilia. Qui compiesi il secondo libretto, affinchè fatto alquanto silenzio, ad incominciare e condurre a termine il terzo le forze della loquela si rinfranchino.
QUI FINISCE IL SECONDO LIBRO